La telemedicina per la riabilitazione cardiologica territoriale: il modello Maugeri 

Un percorso iniziato alla fine degli anni ‘90 che, con l’evolversi della tecnologia, ha trovato partner importanti con cui condividere la presa in carico a distanza dei cronici

«Tutto è iniziato da un problema reale: a fine anni ‘90 i Centri che seguivano i pazienti con scompenso cardiaco avanzato in lista per il trapianto cardiaco erano pochissimi e arrivavano da tutta Italia. Così, spesso l’unica opzione per il paziente e i familiari era stazionare vicino agli ospedali o ai centri di riabilitazione, ma la situazione era diventata insostenibile». Simonetta Scalvini oggi è Responsabile della Cardiologia riabilitativa e del Servizio di Continuità Assistenziale di IRCSS Maugeri Lumezzane (Brescia). La specialista ha sempre avuto una passione per l’organizzazione e i percorsi di cura per i pazienti cronici. 

«In Val Camonica i pazienti che abitavano lontano dall’ospedale spesso sottovalutavano i sintomi cardiologici, arrivando troppo tardi al Pronto Soccorso, oppure in modo non appropriato. Il collega cardiologo del posto mi disse che in Israele avevano sviluppato ECG portatili che trasmettevano i tracciati via telefono e successivamente la risposta poteva essere inviata via fax». 

Nasce così il primo progetto di telemedicina cardiologica territoriale: si parte con uno studio pilota che coinvolge 10 medici di medicina generale della Val Camonica e 10 pazienti con scompenso cardiaco di Maugeri. «I MMG eseguivano l’ECG, lo trasmettevano, e parlavano subito con un cardiologo. Da quel primo studio pubblicato sono seguite oltre 40 pubblicazioni e l’espansione della rete a oltre 1.800 medici di famiglia. Il risultato? Una riduzione dell’80% delle visite inappropriate e maggiore efficienza delle liste d’attesa e dell’invio in Pronto Soccorso. Oggi corrisponderebbe al teleconsulto specialistico.

L’infermiere case manager

Seguendo i modelli internazionali, Scalvini introduce la figura dell’infermiere case manager, che segue il paziente, raccoglie i dati clinici e riceve i dati dai dispositivi collegandosi alle piattaforme in cloud. «Si tratta di una sorta di “tutor” che prende in carico il paziente alla dimissione e coordina la sua gestione fuori dall’ospedale integrandosi con gli specialisti e gli MMG». La gestione del cronico infatti non è monopatologia: «La nurse, a seconda delle problematiche che ha il paziente, chiama lo specialista di riferimento. Questo modello ha comportato una riduzione delle riospedalizzazioni, il raggiungimento dei target terapeutici, la precoce conoscenza dei sintomi del paziente, l’aumento della parte educazionale in cardiologia». 

Simonetta Scalvini

Con il tempo questo paradigma è stato esteso ad altre aree, come la pneumologia, la neurologia e la fisiatria, sempre con l’obiettivo di mantenere la continuità assistenziale. «La principale barriera a questo modello è stata la difficoltà di cambiare il modello organizzativo, soprattutto per gli specialisti. Oggi i giovani medici sono più avvezzi alle nuove tecnologie e ai nuovi modelli organizzativi; all’università invece si insegna solo la gestione dell’acuto, mentre solo raramente si  affrontano temi inerenti alla cronicità, all’economia sanitaria e all’organizzazione».

L’introduzione di nuove tecnologie comporta un maggior controllo sull’operato del medico, ma assicura anche una migliore aderenza alle linee guida e fornisce elementi su cui intervenire qualora non sia ottimale.


Affidare un paziente a un’infermiera significa aumentare la percentuale di raggiungimento degli obiettivi terapeutici rispetto a un ambulatorio divisionale poco organizzato: «So che se ci saranno dei problemi la nurse avviserà lo specialista più indicato, altrimenti seguirà da vicino la quotidianità del paziente, fornendo anche assistenza per quanto riguarda i supporti digitali».

Il problema dell’aderenza terapeutica e dell’utilizzo nel mondo reale dei farmaci che hanno dimostrato grande efficacia nei principali trial clinici è da sempre annoso: «In passato abbiamo pubblicato un lavoro che dimostrava che, in tutta la Regione Lombardia, su oltre 150.000 pazienti con scompenso cardiaco cronico, quelli trattati con i farmaci consigliati nelle linee guida erano appena il 19%», ricorda Scalvini. 

Telemechron, pensato per durare oltre la sperimentazione

Maugeri può essere considerato a tutti gli effetti un servizio di telemedicina: dal 2006 in poi, grazie a una delibera della Regione Lombardia, è stata attivata la tariffa per la telesorveglianza dello scompenso cardiaco, e nel 2011 quella per la BPCO. Vi è poi un Laboratorio di telemedicina dove si studiano le nuove applicazioni e per fare questo si partecipa ai grandi bandi europei e nazionali per la ricerca.

Il case manager è una sorta di “tutor” che prende in carico il paziente alla dimissione e coordina la sua gestione fuori dall’ospedale integrandosi con gli specialisti e gli MMG

Qualche anno fa nasce Telemechron, un progetto per pazienti con scompenso cardiaco e diabete. «Quest’ultima è una delle malattie che più frequentemente porta a una patologia cardiaca. Il nostro obiettivo è modificare gli stili di vita del paziente: incentivare attività fisica, calo ponderale, controllo dei parametri clinici». In questo caso la tecnologia arriva da CompuGroup Medical, che mette a disposizione un ECG indossabile (CGM HI 3 LEADS ECG) un contapassi  FitBit e una piattaforma per la raccolta dati (CGM CARE MAP), che viene poi completata da un’App terza. «L’azienda aveva dispositivi che sarebbero stati utili per il progetto e la voglia di sperimentare con noi», dice la cardiologa.

Per quanto riguarda il personale, il team è stato composto da una case manager infermieristica e una laureata in scienze motorie che si è occupata dell’attività fisica adattata. 

Telemechron è durato 3 anni e ha coinvolto, oltre a Maugeri, l’USL Toscana Nord Ovest e Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di Trento. Sono oltre 100 i pazienti arruolati. «Il progetto è randomizzato e ha mostrato che chi ha ricevuto il trattamento ha registrato un netto miglioramento dell’attività fisica, un calo ponderale, il raggiungimento dei target terapeutici e dei parametri quali l’emoglobina glicata e l’LDL. Avevamo già svolto altri studi, ma in questo caso volevamo utilizzare un approccio personalizzato, che superasse i limiti del classico modello riabilitativo e che potesse durare oltre il progetto. Per questo abbiamo cercato di trovare condizioni che fossero più vicine possibile alla vita quotidiana dei singoli pazienti».

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Michela Perrone
Giornalista pubblicista