Un #MeToo nella sanità italiana non c’è davvero mai stato. Dati e testimonianze, però, danno concretezza ad una situazione delicata in tema di molestie e discriminazioni subite dalle donne medico all’interno delle strutture sanitarie da parte di colleghi uomini. A TrendSanità ne parla Rossana Berardi, Presidente di Woman for Oncology. La premessa di partenza può essere rappresentata dai dati che sono stati recentemente pubblicati da ISTAT sulle molestie alle donne nei luoghi di lavoro, dove abbiamo visto che il 13,5% delle donne lavoratrici ha subito molestie a sfondo sessuale.
Quanto è presente, secondo lei, il problema nelle strutture sanitarie?
«Questa problematica è stata parzialmente esaminata. Tuttavia, Women for Oncology, spin-off della Società Europea di Oncologia, ha recentemente condotto un’indagine per quantificare la potenziale disparità di genere nel settore sanitario. Lo studio, distribuito a livello nazionale attraverso la rete della nostra associazione, ha coinvolto un campione di 410 professionisti sanitari, di cui l’83% opera in ambito oncologico, con una composizione demografica di 313 donne e 97 uomini».
Quali sono i risultati?
«Le risposte hanno rivelato che il 70% dei partecipanti all’indagine (ovvero 7 su 10) ha percepito o segnalato un significativo divario di genere nello sviluppo professionale, con una preponderanza a sfavore delle donne. Un’analisi qualitativa dei dati ha evidenziato una prevalenza di pregiudizi, con la narrativa più comune che attribuiva il successo professionale femminile a relazioni con figure di potere. Inoltre, nel 72% dei casi sono stati riportati commenti di natura sessista o discriminatoria, con una distribuzione asimmetrica: due terzi di questi erano diretti esclusivamente o prevalentemente alle donne, mentre una percentuale quasi nulla era rivolta agli uomini».
Questi dati suggeriscono che la disparità di genere rappresenti un fenomeno pervasivo, che si estende potenzialmente a tutti i settori professionali, incluso quello sanitario, richiedendo ulteriori indagini e interventi mirati.
Nel 72% dei casi sono stati riportati commenti di natura sessista o discriminatoria
«L’analisi dei dati integrata con una valutazione qualitativa delle testimonianze raccolte da un campione di oltre mille professioniste, tra cui oncologhe e specializzande in oncologia, facenti parte della rete di Women for Oncology, ha portato a una conclusione preliminare. Emerge che il fenomeno in questione può essere categorizzato come una forma di molestia psicologica insidiosa, caratterizzata da una natura spesso latente e difficilmente quantificabile».
Questo giustificherebbe le poche denunce?
«La manifestazione di tale fenomeno non si presenta generalmente in forme esplicite o facilmente rilevabili, rendendo complessa la sua denuncia formale o l’esposizione pubblica. La sua peculiarità risiede nella mancanza di trasparenza e nella natura indiretta delle interazioni problematiche, che ostacolano significativamente la capacità delle vittime di attuare strategie di difesa efficaci. Questa caratteristica di opacità incrementa potenzialmente l’impatto discriminatorio del fenomeno, in quanto limita la possibilità di intraprendere azioni correttive o preventive adeguate».
Come si può monitorare e migliorare la situazione?
«La natura di queste dinamiche interpersonali complica l’identificazione e l’attuazione di interventi mirati, perpetuando così un ambiente potenzialmente ostile e discriminatorio. Le analisi in questo contesto rivelano che le potenziali contromisure, incluse le risposte individuali dirette, sono spesso limitate dall’ambiente in cui si verificano questi fenomeni. La natura diffusa e talvolta non direttamente osservabile di questi comportamenti molesti e discriminatori limita significativamente l’efficacia delle azioni correttive immediate».
C’è paura a denunciare?
«Questo scenario crea un paradosso: l’atto di denunciare o esporre tali comportamenti può paradossalmente generare conseguenze negative per la vittima, portando a una inversione percepita dei ruoli di torto e ragione. I dati suggeriscono che la paura di ripercussioni negative o di una ulteriore marginalizzazione professionale agisce come un potente deterrente alla segnalazione di questi incidenti, perpetuando così un ciclo di silenzio e inazione».
Quali strategie, secondo lei, potrebbero essere messe in campo per ostacolare questa problematica?
Si potrebbe fare formazione, anche nei percorsi universitari, riguardo a queste tematiche
«In generale penso che un richiamo al codice etico sia davvero importante poiché si sta perdendo il senso dell’eticità sia nel lavoro, non solo in ambito oncologico, ma in tutti gli ambiti sanitari per cui anche la fotografia che abbiamo fatto sui commenti sessisti e discriminatori dovrebbe veramente essere riportata su un binario di professionalità. Riportare ad un’eticità il nostro lavoro non può prescindere da una rivoluzione culturale. Quando entriamo in un posto di lavoro è quasi naturale dover fare equilibrismo tra queste situazioni, ma è evidente che questo non può essere considerato naturale. Quindi, così come si promuovono i corsi obbligatori per la sicurezza sul lavoro, sulla privacy, eccetera si potrebbe fare formazione, anche nei percorsi universitari, riguardo a queste tematiche. La discriminazione va evitata sempre, non soltanto relativamente al sesso biologico, ma anche in rispetto all’identità di genere. Andrebbe proprio promossa una cultura dell’inclusione».