Salute dietro le sbarre, tra carenze, diritti negati e urgenze dimenticate

Scarsa formazione, servizi disomogenei, assenza di coordinamento e numeri crescenti di suicidi: la sanità penitenziaria resta ai margini del SSN. Medici e Polizia penitenziaria chiedono un modello unico, nazionale e integrato

Dalle patologie psichiatriche alla scabbia, dalle dipendenze alle cure odontoiatriche inesistenti, nelle carceri italiane il diritto alla salute resta spesso un’utopia. Medici e Polizia penitenziaria denunciano la frammentazione territoriale, l’assenza di coordinamento e il vuoto formativo per chi opera in questi contesti. E mentre i numeri dei suicidi aumentano, la sanità penitenziaria continua a essere la “parente povera” del Servizio Sanitario Nazionale. Servirebbe un modello unico, nazionale e strutturato, ma anche una riforma culturale, prima ancora che organizzativa.

Ne abbiamo parlato a TrendSanità con Antonio Maria Pagano, Presidente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe), e Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE).

Professione: medico e poliziotto in carcere

Antonio Maria Pagano

«Le motivazioni che possono spingere un medico a lavorare all’interno del carcere sono molteplici – spiega Pagano –. C’è chi è mosso dal desiderio di aiutare, ma anche chi è attratto dalla sfida professionale che comporta lavorare in un ambito tanto complesso. Qui il corpo diventa spesso un mezzo per ottenere benefici, per uscire dalla cella o un linguaggio per esprimere disagio. Servono competenze cliniche, medico-legali e una buona conoscenza delle normative, perché bisogna sapere a che punto del processo si trova il detenuto quando si rivolge a noi.

Fino al 2010 – prosegue – medici, infermieri e operatori sanitari erano dipendenti o consulenti del Ministero della Giustizia, scelti direttamente dai direttori degli istituti. Erano pagati a prestazione. Con il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, è cambiato tutto: oggi sono dipendenti del SSN, ma l’organizzazione dell’assistenza resta disomogenea, a “macchia di leopardo”, con differenze tra le varie aziende sanitarie, tra servizi di base, salute mentale, dipendenze ed équipe multidisciplinari».

La relazione di cura in carcere coinvolge aspetti sanitari, giuridici, penitenziari

«Prima – aggiunge Capece – c’erano medici dedicati esclusivamente all’assistenza sanitaria dei detenuti. Li conoscevano, sapevano distinguere chi aveva davvero bisogno da chi cercava un pretesto per uscire dal carcere. Oggi, con medici esterni spesso poco esperti, è più facile che si autorizzi un accesso in Pronto Soccorso per paura di reazioni violente. Poi lì, in ospedale, si scopre che non c’erano reali motivi clinici e si torna indietro. Il tutto, dopo aver organizzato una scorta e una macchina e impegnati diversi agenti. In alcuni penitenziari si potevano fare anche le analisi del sangue e in più c’erano dentisti, psicologi, specialisti che visitavano regolarmente i detenuti, addirittura c’erano sale operatorie di emergenza, quasi mai usate».

Il sindacato: più strutture, meno improvvisazione

«Il nostro ruolo, rappresentando le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria che vivono la realtà delle carceri nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, è proporre soluzioni concrete ai problemi reali – afferma Capece –. Le tossicodipendenze creano da sempre enormi difficoltà gestionali, così come la presenza di persone con disturbi psichiatrici. Dopo la chiusura degli OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), molti di loro sono finiti in carcere, perché le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono pochissime. E così anche chi non dovrebbe stare in carcere, finisce per restarci.

Donato Capece

L’assistenza psichiatrica è carente, ma l’ASL fa poco per potenziare questi servizi. Il personale sanitario è insufficiente e noi agenti penitenziari ci troviamo a fare anche da educatori, assistenti, ascoltatori, infermieri e cappellani. Crediamo che tutti questi problemi si possano affrontare tornando a un modello di sanità penitenziaria autonomo e strutturato, com’era prima di essere inglobato nel SSN. Un modello che funzionava».

Un rapporto di cura da costruire

«Il rapporto medico-paziente in carcere è anomalo – chiarisce Pagano. Nella sanità territoriale, è il paziente a scegliere il medico. In carcere no, il medico è assegnato. In alcuni casi si può fare richiesta di uno specialista esterno, ma serve l’autorizzazione. Chi sta in carcere, normalmente (ma non è scontato), ha lo stesso gruppo di medici, almeno per l’assistenza di base. Per le visite specialistiche, invece, o viene lo specialista in istituto oppure la persona accede a un ambulatorio esterno tramite prenotazione. In tutto questo, è fondamentale includere anche gli aspetti giuridici nell’anamnesi. Sapere a che punto è il procedimento, cosa sta accadendo nell’istituto. Anche un malessere improvviso può dipendere da dinamiche non cliniche ma ambientali».

Verso un modello nazionale integrato

«Come Società Italiana di Sanità Penitenziaria – sottolinea Pagano – abbiamo proposto un modello unico, valido su tutto il territorio. Lo abbiamo presentato al Ministero e al nostro Congresso. Serve un’organizzazione sanitaria coerente, integrata, formativa. La relazione di cura in carcere è complessa: coinvolge aspetti sanitari, giuridici, penitenziari. Gli istituti sono spesso inadeguati, costruiti prima della riforma dell’ordinamento penitenziario. Spazi vetusti che influenzano negativamente la salute di tutti, detenuti, agenti, operatori sanitari e il burnout è dietro l’angolo».

Patologie diffuse, dati frammentari, criticità croniche

«Ad oggi non esiste un sistema nazionale di rilevamento dello stato di salute nelle carceri – spiega Pagano. L’unico studio è del 2014, realizzato per un progetto CCM. Le patologie psichiatriche coinvolgono circa il 10% della popolazione detenuta. Le dipendenze riguardano più del 30%, ma superano il 70% se si considerano anche i casi non dichiarati. L’HIV è oggi residuale, mentre la tubercolosi in forma latente è presente soprattutto tra chi proviene da contesti fragili o comunque da territori dove è ancora endemica. Il carcere, spesso, è il primo vero contatto con un medico, per questo la sanità penitenziaria ha anche un valore preventivo importantissimo.

Ad oggi non esiste un sistema nazionale di rilevamento dello stato di salute nelle carceri

Le malattie cutanee, come la scabbia, sono frequenti, ma l’isolamento dei casi è difficile da attuare per carenze igieniche, sovraffollamento, strutture inadeguate. L’igiene è responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, non del servizio sanitario. Grave anche la situazione odontoiatrica. Molti detenuti, infatti, soprattutto tossicodipendenti, hanno gravi problemi dentari. Le cure odontoiatriche non rientrano nei LEA, a parte le estrazioni, cura delle carie e poco più. Chi non può pagare, quindi, resta senza denti. Solo chi ha soldi può permettersi cure complete, creando disparità anche all’interno del carcere. Serve un’odontoiatria sociale, pubblica, accessibile».

«In una situazione di sovraffollamento cronico – aggiunge Capece –, dove ogni anno passano oltre 100 mila persone, anche garantire il diritto alla salute diventa un’impresa. Le malattie psichiche sono le più diffuse, seguite da disturbi gastrointestinali, obesità, diabete e osteoporosi, spesso legati a cattiva alimentazione, carenza di vitamina D e sedentarietà. Mancano gli screening e ciò comporta ritardi diagnostici gravi. Spesso poi siamo noi poliziotti i primi a intervenire in casi di autolesionismo o tentativi di suicidio».

Cosa succede dopo: la continuità assistenziale interrotta

«Una volta uscite, le persone tornano cittadine come tutte le altre – spiega Pagano –, ma manca un sistema per garantire la continuità delle cure. A volte ci comunicano la scarcerazione lo stesso giorno e riusciamo al massimo a consegnare un primo ciclo di terapia e a redigere una “lettera di dimissione” che ha il fine di informare il medico di famiglia di quanto fatto durante il periodo detentivo.

Alcune persone, pur di avere i domiciliari, peggiorano volontariamente le proprie condizioni cliniche e non si curano

Più complesso il discorso per chi va agli arresti domiciliari. Se la sanità penitenziaria si occupa solo di chi è fisicamente in carcere, queste persone restano senza assistenza o, se devono fare una visita medica, devono seguire tutto l’iter insieme all’avvocato e chiedere l’autorizzazione del giudice. Ciò comporta anche dei costi, per questo proponiamo una sanità penitenziaria che segua anche le persone sottoposte a misure restrittive. Avere servizi dedicati nelle Asl consentirebbe di garantire continuità di cura anche fuori dal carcere.

Formazione, responsabilità, consapevolezza

«La sanità penitenziaria è oggi frammentata e disomogenea – continua Pagano – e manca una formazione obbligatoria. Servirebbe già nei corsi di medicina generale e nelle scuole di specializzazione. Lavorare in carcere richiede consapevolezza, conoscenze giuridiche, capacità di redigere relazioni per i magistrati. Non basta saper curare e, se l’assistenza in carcere resta residuale, affidata a chi ha un po’ di tempo libero, non si costruisce competenza».

La sanità penitenziaria è oggi frammentata e disomogenea e manca una formazione obbligatoria

«Il Presidente della Repubblica Mattarella ha definito quella dei suicidi in carcere una vera emergenza sociale – ricorda Capece. Nel 2024 si sono contati 246 decessi in carcere, di cui 91 per suicidio. Numeri che parlano da soli. Ma a fare seriamente riflettere è anche l’alto numero di suicidi che si registra tra gli appartenenti al Corpo: dal 2000 ad oggi parliamo dell’inaccettabile numero di 100. Il Governo ha inserito la prevenzione dei suicidi e dell’autolesionismo tra le priorità e ha istituito, con il DPR 13 novembre 2024 n. 217, il ruolo tecnico per i medici della Polizia Penitenziaria con formazione specifica e aggiornamenti professionali obbligatori. Abbiamo ottenuto 103 posti, ma le procedure sono ferme, vanno avviati i concorsi. Serve riconoscere la specificità della medicina penitenziaria. Un esempio concreto? Gli ospedali dei comuni sede di istituti penitenziari dovrebbero avere reparti di medicina protetta, dove detenuti e sicurezza siano entrambi tutelati. Un modello da estendere e regolamentare».

Il coraggio di pensare un carcere diverso

Secondo i dati del Garante dei detenuti – conclude Capece –, ci sono almeno 9.715 persone con pene definitive inferiori a un anno. Sono persone che potrebbero scontare la pena fuori, sul territorio. C’è chi è dentro per tre mesi, sei mesi, perfino uno. Ma il carcere non può essere la risposta a tutto. La custodia cautelare dovrebbe essere riservata solo a chi è realmente pericoloso, non può diventare la norma per chiunque.

Occorre il coraggio di immaginare un “carcere invisibile” sul territorio, gestito dalla Polizia Penitenziaria con gli Uffici di esecuzione penale esterna

Si possono controllare le persone ai domiciliari, chi lavora in azienda o in progetti di recupero ambientale o chi segue un percorso di reinserimento. È possibile, occorre cambiare mentalità. Pensare che la detenzione sia l’unica soluzione, anche per pene brevi, è sbagliato e pericoloso. Non voglio passare per buonista: chi commette un reato deve pagare. Ma la pena detentiva non può essere l’unica via. Soprattutto quando parliamo di chi ha meno di un anno da scontare».

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Ivana Barberini
Giornalista specializzata in ambito medico-sanitario, alimentazione e salute