Dopo anni di vuoto normativo e interventi della Corte costituzionale, il Parlamento ha avviato la discussione di un disegno di legge che mira a regolamentare il suicidio medicalmente assistito. Il testo unificato, approdato in Senato, nasce dall’accorpamento di sei proposte e intende fissare regole precise in un ambito tra i più delicati: quello del diritto a scegliere come e quando porre fine a una condizione di sofferenza estrema e irreversibile. La bozza di legge, in linea con i principi stabiliti dalla Consulta, introduce una causa di non punibilità per chi presta aiuto al suicidio a determinate condizioni, rafforza l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore e istituisce un Comitato nazionale di valutazione incaricato di verificare i requisiti richiesti. Non mancano però i punti controversi: dalla decisione di escludere il Servizio sanitario nazionale dal percorso, con il rischio di una disparità economica nell’accesso, alla complessità burocratica che potrebbe rallentare le procedure.
Il dibattito, che intreccia aspetti bioetici, giuridici e sociali, si riapre così in tutta la sua urgenza. Ne abbiamo parlato con Mario Riccio, medico anestesista in pensione e consigliere dell’Associazione Luca Coscioni, da sempre impegnata sul fronte dei diritti civili e in prima linea nel rivendicare una legge che garantisca libertà di scelta, tutela e dignità a chi affronta l’ultimo tratto della vita.
Farmaci e protocolli
Nei Paesi dove la morte assistita è legale esistono protocolli precisi. Nei Paesi Bassi, ad esempio, si utilizzano anestetici potenti seguiti da bloccanti neuromuscolari, in Svizzera prevale il ricorso al pentobarbital, per via orale o tramite sondino. In Italia, dove la pratica è stata introdotta più di recente, i casi sono ancora pochissimi e i medici si rifanno soprattutto ai modelli stranieri e alla propria esperienza. La normativa nazionale impone che la persona si autosomministri il farmaco e questo impedisce, di fatto, l’impiego successivo di altri medicinali per accelerare il processo.
A rendere il quadro ancora più complesso è la scarsità di dati scientifici aggiornati su complicazioni, effetti collaterali e tempi di decesso. In questo scenario, ci si chiede se è possibile anche garantire un consenso davvero informato, così come stabilire protocolli condivisi a livello internazionale.

«I farmaci utilizzati per la morte medicalmente assistita – spiega Riccio –, che comprende sia l’assistenza al suicidio sia l’atto eutanasico, sono gli stessi comunemente impiegati in anestesia generale. In sostanza, sia nel suicidio assistito che nell’eutanasia si segue la sequenza tipica dell’induzione all’anestesia generale, alla quale però non fa seguito l’intubazione orotracheale e la connessione al ventilatore, come avviene invece in un intervento chirurgico. Per la documentazione disponibile, seppure limitata, si può fare riferimento alle linee guida elaborate nei Paesi Bassi e in Spagna. I principali farmaci indicati sono: per la via orale, il barbiturico Penthotal (non in commercio in Italia, come in molti altri Paesi, aspetto su cui tornerò più avanti); per la via endovenosa, il Propofol, il barbiturico Tiopentone, le benzodiazepine e l’intera famiglia dei curari. Quanto al consenso, quindi, ritengo che al richiedente si possa garantire una sicura e adeguata informazione».
Autosomministrazione del farmaco: l’Italia sceglie la via più restrittiva nel dibattito sul fine vita?
«Per quanto riguarda la situazione italiana sorge effettivamente qualche problema. In pratica, in Italia, al momento, è possibile soltanto l’assistenza al suicidio. Questo, di per sé, non costituirebbe un ostacolo, se non fosse che nel nostro Paese non è disponibile il farmaco per via orale, cioè il Penthotal, un barbiturico usato invece in Svizzera che induce rapidamente coma farmacologico e morte. In Italia questa formulazione non è disponibile, ma potrebbe essere prodotta su richiesta istituzionale, ad esempio dall’Istituto Farmacologico Militare di Firenze, essendo un prodotto galenico. Un po’ come accadde con la cannabis terapeutica. Nei pochi casi conosciuti in Italia, circa 10-12, è stato utilizzato prevalentemente (ma i protocolli di ogni singolo caso non sono tutti noti) il tiopentone per via endovenosa, lo stesso farmaco che per decenni ha indotto l’anestesia generale. Il paziente, con un ago cannula collegato a una flebo, può aprire il deflussore e iniettarsi da solo il farmaco che porterà alla morte. Al sanitario resta in ogni caso la responsabilità di posizionare la via venosa, diluire il farmaco e predisporre la flebo.
La Corte costituzionale ha riconosciuto la non punibilità in certe condizioni, ma non ha predisposto regole operative, lasciando un vuoto normativo
Il problema si pone per chi non può muovere le mani, come nel caso di una persona completamente paralizzata presentato recentemente proprio dalla Associazione Coscioni alla Corte costituzionale. Ho redatto personalmente una consulenza in cui attestavo l’impossibilità materiale di autosomministrarsi il farmaco. La Corte ha rinviato il caso, suggerendo la ricerca di soluzioni “tecnologiche” come ad esempio pompe infusionali comandate da un segnale vocale, ma ciò allunga i tempi e aumenta lo stress per il paziente. Dal punto di vista clinico non ci sono particolari rischi, con il dosaggio massivo il coma e l’arresto respiratorio sono inevitabili. Fondamentale è il consenso, cioè la persona deve essere capace di intendere e volere ed esprimere chiaramente la volontà di morire. Un’alternativa potrebbe essere l’uso di un cocktail di farmaci, come avviene ad esempio in California. Questa procedura, però, prevede l’ingestione di più farmaci, assunti a distanza di alcuni minuti, e risulta quindi più complessa e meno lineare».
Suicidio assistito, escluso il SSN: quali rischi per il diritto all’autodeterminazione?
«Il nuovo disegno di legge sul suicidio assistito rischia però di restringere ulteriormente i criteri già fissati dalla Consulta e di escludere il Servizio sanitario nazionale dal supporto concreto, lasciando i pazienti a cercare soluzioni nel privato. Non si comprende nemmeno la resistenza a discutere apertamente di eutanasia. Moralmente non vedo differenze tra predisporre una flebo che il paziente attiva e iniettare direttamente la sostanza. Sul piano politico, va inoltre sottolineata la chiara volontà, da parte dell’attuale governo, di sottrarsi a qualsiasi responsabilità nei confronti di questa nuova pratica sociale, la morte medicalmente assistita, che, al contrario, si sta affermando sempre più nei Paesi occidentali. Alcune aperture si intravedono: ad esempio, un questionario anonimo ha mostrato che il 61% dei medici della AIOM, Associazione Italiana Oncologia Medica, si dichiara favorevole a eutanasia o suicidio assistito. È un piccolo segno che la direzione, seppur lenta, è questa. Certo, i condizionamenti religiosi e culturali pesano ancora, ma in uno Stato laico non dovrebbero impedire a chi non condivide quelle convinzioni di esercitare il proprio diritto.
Il nodo centrale resta il ruolo del sistema sanitario, la cui “missione” è la tutela della salute. Ma la salute, intesa come benessere psicofisico secondo l’OMS, può includere anche la possibilità di porre fine a una condizione insopportabile. Se le cure palliative sono ammesse perché accompagnano alla morte, non si capisce perché il suicidio assistito debba essere escluso. Un intervento legislativo chiaro, sul modello olandese, garantirebbe uniformità e tutela, lasciando a medico e paziente la decisione sul percorso più adeguato».







