Non ci può essere telemedicina senza adeguata formazione. Un aspetto fondamentale ma ancora da sviluppare. Facciamo il punto sullo stato dell’arte e sulle prospettive con Loredana Luzzi, direttore generale dell’Università degli Studi di Brescia e consigliera dell’Associazione italiana Sanità digitale e Telemedicina (AiSDeT), a margine del suo intervento agli Stati generali della Telemedicina.
Che rapporto c’è fra telemedicina e formazione?
Più che altro parliamo di che rapporto ci dovrebbe essere, nel senso che la formazione è un elemento cruciale per poter usare la telemedicina e gli strumenti che mette a disposizione per le attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Il mio invito è ad andare a riguardare le due paginette delle Linee guida nazionali sulla telemedicina del 2014: risalgono a un po’ di tempo fa, ma gli elementi li troviamo tutti.
Partiamo da qui: per formazione che cosa si intende? Da una parte l’istruzione degli operatori sanitari, quindi medici o tutte le figure, a partire dagli infermieri, ma anche dei tecnici che devono utilizzare questi strumenti. Dall’altra, le linee di indirizzo già allora citavano la necessità di formare i pazienti e di questa esigenza ci siamo resi conto in modo dirompente nel momento in cui la telemedicina ha avuto una maggiore diffusione perché era l’unica via, cioè dal febbraio 2020 fino ai mesi scorsi, essendo rimasto il tema dell’evitare l’accesso alle strutture di cura a un certo tipo di pazienti.
Perché la formazione è così importante in questo settore?
Perché se noi non non investiamo, ma proprio a livello di ordinamento – e poi citerò l’importanza di coinvolgere le università, che sono il luogo istituzionalmente deputato per fare formazione – rischiamo di di avere al suo posto una sorta di addestramento. La formazione è saper fare, saper essere e saper svolgere l’attività. Il rischio è che questi tre aspetti siano confusi con l’addestramento, che sono le guide operative e le istruzioni per l’uso che servono al sistema, inteso come operatori, quindi medici e professionisti, ma anche i cittadini.
Sin dalle linee di indirizzo per la telemedicina del 2014 si sottolinea l’importanza di formare sia i medici e professionisti sanitari che i pazienti
Come pazienti subiamo la tecnologia, perché chi ci fornisce le istruzioni per l’uso? Il produttore. Senza nulla togliere all’importante ruolo che hanno i produttori di tecnologia, perché ovviamente senza di loro non potremmo sviluppare sistemi che la usano per migliorare i percorsi di cura, è però fondamentale che sia i medici che i cittadini abbiano consapevolezza, e per avere consapevolezza bisogna essere formati. Non mi riferisco tanto allo sviluppo delle skill operative, ma proprio a quello delle competenze consolidate: questo è l’argomento fondamentale.
L’Italia continua ad avere come punto debole le competenze, come emerge anche dal Desi 2022. Il nostro Paese si sta muovendo per migliorare la situazione? E come farlo ulteriormente?
Se prendiamo il rapporto Desi, di sicuro interesse, vediamo che l’Italia si colloca al diciottesimo posto per sviluppo di competenze digitali fra gli Stati membri. Questo certo non ci fa onore. Ma perché questa situazione? Innanzitutto c’è il nodo delle competenze degli stessi medici. Adesso noi abbiamo dei medici laureati che sono nati alla fine degli anni ’90. Sostanzialmente, quindi, sono nativi digitali. Ma l’essere nativo digitale non significa saper utilizzare la tecnologia nel percorso di prevenzione, diagnosi e cura. Perciò, se nel percorso di formazione del medico – e qui l’importanza di lavorare con le università – non inserisco dei moduli adeguati per far sì che il nuovo medico abbia, come dicevo prima, la consapevolezza, e sappia effettivamente utilizzare gli strumenti di telemedicina, non vado da nessuna parte. Avere la consapevolezza non significa saper usare l’ultima tecnologia, ma disporre di tutti gli strumenti culturali che mi consentono di capire, nel momento in cui arriva il mercato e mi propone un nuovo modo per poter fare la televisita, se nel mio processo di prevenzione, diagnosi e cura potrebbe essere utile.
La formazione dovrebbe mettere il medico nelle condizioni di capire se una nuova tecnologia possa essere utile per il percorso di prevenzione, diagnosi e cura
C’è anche un’altra questione, quella della formazione da un punto di vista psicologico e della relazione col paziente. Anche questa è presente già nelle linee guida: formazione psicologica per i medici e per gli operatori. La televisita richiede un certo tipo di preparazione anche in termini di empatia e di coinvolgimento da parte del professionista nei confronti del paziente e viceversa.
Cosa serve?
Per vent’anni non ho fatto altro che dire che ci volevano regole a livello di ordinamento per poter fare telemedicina e finalmente le abbiamo e abbiamo adesso anche gli accordi Stato-Regioni che la disciplinano in tutta la nostra nazione ed hanno i requisiti per svolgere questo tipo di attività. A questo punto il quadro regolatorio è a posto.
Il quadro regolatorio sulla telemedicina oggi è completo. Adesso serve far sì che questi strumenti vengano effettivamente usati: servono professionisti e pazienti che si formano
Per far sì che effettivamente questi strumenti vengano utilizzati, abbiamo bisogno di avere professionisti e pazienti che si formano. Per quanto riguarda i professionisti, sicuramente in ambito universitario, quindi negli ordinamenti dei corsi di laurea a ciclo unico per medicina e triennale per le professioni sanitarie.
A dire il vero qualcuno l’ha già fatto: ad esempio nel corso di laurea in Medicina in Bicocca ci sono moduli specifici che toccano il tema dell’utilizzo delle tecnologie nel percorso di prevenzione, diagnosi e cura. Quindi non partiamo da zero. Dovrebbe però esserci anche qui un coinvolgimento da parte del mercato stesso che propone le tecnologie, nel farsi promotore del fatto che l’uso delle tecnologie e i nuovi percorsi e modelli di cura attraverso l’uso delle stesse debba essere inserito nei percorsi di studi. Questo secondo me è il punto focale.
Come procedere in concreto?
Valutando i programmi formativi per capire dove effettivamente sono già presenti queste competenze, ma pensando anche a percorsi di tronco comune. Oggi, ad esempio, sui medici si lavora molto sulla specializzazione; quindi durante la scuola di specialità cominciano a essere contemplati questi aspetti, mentre forse potrebbe essere il caso di inserirli già nel corso di laurea a ciclo unico dei sei anni e perfino nei primissimi anni sia della laurea in Medicina che in quelle delle professioni sanitarie.
C’è anche il caso del corso di laurea che l’Università milanese ha lanciato con il Politecnico mettendo insieme discipline ingegneristiche e mediche, che sarà poi da valutare. Bisognerà cioè monitorare e capire che cosa effettivamente le figure professionali che ne usciranno potranno fare.
Un’idea ulteriore molto interessante da mettere sul tavolo con le università è quello di ragionare per le professioni sanitarie su lauree magistrali che abbiano un profilo tecnologico e che possano mettere insieme anche profili che vengono da lauree triennali diverse: dagli infermieri ai tecnici di radiologia, dai tecnici della prevenzione fino agli assistenti sociali e ai fisioterapisti, tutte figure che possono concorrere alla prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione.