Alla scoperta delle professioni sanitarie della Federazione nazionale degli Ordini TSRM e PSTRP
Ricevere una diagnosi di autismo non è facile per le famiglie. È una condizione complessa, che si manifesta in diversi modi e di cui ancora si sa poco, nonostante i tanti studi. Per questo è stata coniata l’espressione “spettro autistico”. Nei casi più gravi l’autismo mette in crisi le famiglie che difficilmente sono preparate ad affrontare le difficoltà quotidiane che questo disturbo comporta. Dove andare, a chi rivolgersi, quali sono le terapie o i trattamenti da attivare?
Le informazioni ci sono, l’Osservatorio dell’Istituto Superiore di Sanità ha svolto un grande lavoro su questo tema, e in alcune Regioni non mancano le risorse a disposizione. Il problema è la scarsa conoscenza delle competenze in campo.
Ne parlano a TrendSanità Andrea Bonifacio, presidente della Commissione di albo nazionale dei Terapisti della neuro psicomotricità dell’età evolutiva (Tnpee), e Simone Di Lisa, componente della Commissione di albo nazionale dei Terapisti occupazionali (Tocc) nell’ambito della Federazione nazionale degli Ordini TSRM e PSTRP.
Aree di intervento
«I disturbi dello spettro autistico rientrano in un quadro più ampio di alterazioni del neurosviluppo – ci dice Bonifacio –. Gli studi scientifici evidenziano come le vulnerabilità di adattamento delle persone affette da questo disturbo siano il risultato di una serie di difficoltà funzionali, che compromettono in particolar modo la capacità di modulare e interpretare le informazioni, difficoltà espresse con comportamenti di ipo o iper reattività nell’interazione con l’ambiente esterno, con le persone e con il mondo inanimato. Il Tnpee si occupa del benessere e della salute dei soggetti in età evolutiva, sia in condizioni di sviluppo tipico che di sviluppo atipico. Il percorso formativo di questo professionista è interdisciplinare, consentendo l’accompagnamento della persona nel suo progetto di salute e di vita, dalla nascita ai 18 anni. Grazie alla specificità formativa, il Tnpee è in grado di intercettare le atipie comportamentali che nei primi anni di vita possono esprimere condizioni di vulnerabilità clinica, oppure segnalare una malattia. Nella diagnosi e negli interventi precoci, spesso, si può incorrere in errori se non si conosce la variabilità fisiologica dello sviluppo tipico. In situazioni di accertata fragilità è fondamentale accompagnare il bambino nella costruzione delle prime interazioni con l’ambiente sociale, facilitando le funzioni che interessano l’apprendimento, la comunicazione, il pensiero logico e sociale».
«Quello che conta, infatti, è intervenire nelle diverse aree con l’obiettivo di portare la persona a raggiungere il miglior livello di autonomia e indipendenza sul piano fisico, funzionale, sociale, intellettivo e relazionale – interviene Di Lisa –. L’intervento del Tocc va proprio in questa direzione: sviluppare, sostenere e incrementare la capacità di agire, le abilità e le performance nelle attività di vita quotidiane riguardanti la cura di sé, la produttività e il tempo libero. Sempre nel consolidamento delle potenzialità e degli interessi della persona, lavorando attivamente ai percorsi personali di inclusione e indipendenza. Svolge, infatti, un ruolo rilevante nell’individuare la possibilità di un inserimento lavorativo alle persone con spettro autistico. Valuta e individua le abilità e le capacità lavorative e attraverso training specifici, con l’utilizzo di strategie e modifiche e/o adattamenti ambientali permette alla persona di poter svolgere l’attività lavorativa».
Équipe multidisciplinari per un trattamento integrato
«Durante la crescita vi è una continua trasformazione dei bisogni, poiché le funzioni emergenti, da un lato configurano nuove competenze, dall’altro nuove criticità. È quindi la formazione specifica per età e per aree di sviluppo che consente di individuare le esigenze specifiche di un determinato momento, per coinvolgere all’occorrenza anche altri professionisti in rapporto ai cambiamenti osservati nel bambino», prosegue Bonifacio. «Ad esempio, un supporto alla comunicazione nei primissimi anni di vita può favorire l’evoluzione del linguaggio espressivo e ricettivo, orientando il professionista verso il coinvolgimento dei logopedisti. Per questo il mondo del Tnpee, come tutto l’ambito della riabilitazione, si fonda proprio sul concetto di équipe multiprofessionale e interprofessionale. Il neuropsichiatra infantile, il pediatra, lo psicologo, il terapista occupazionale e il logopedista sono le primissime figure che entrano in contatto con il bambino».
Con il terapista si può sviluppare, sostenere e incrementare la capacità di agire, si migliorano le abilità e le performance nelle attività di vita quotidiane
«Il Terapista occupazionale – aggiunge Di Lisa – offre il proprio supporto al trattamento multidisciplinare con un programma riabilitativo basato sui bisogni della persona per avviarla all’autonomia personale nel quotidiano e nel sociale. In particolare, lo fa promuovendo l’adattamento e l’integrazione dell’individuo nei vari ambienti di vita, anche attraverso modifiche e azioni educative verso famiglia, caregiver e collettività. La collaborazione con tutte le figure professionali della prevenzione, cura e riabilitazione è imprescindibile. I diversi approcci e le singole professionalità, se ben armonizzate, incrementano le probabilità di raggiungere gli obiettivi dei programmi riabilitativi, tutto a beneficio della salute e del benessere della persona».
«Il Tnpee è il professionista dell’integrazione – spiega ancora il presidente della commissione d’albo Tnpee –. Alcune delle nostre competenze sono declinate anche da altri professionisti, ma la formazione approfondita su tutti i processi e le trasformazioni che caratterizzano l’individuo in crescita nella dimensione longitudinale del suo sviluppo rappresenta una specificità identitaria dei terapisti dell’età evolutiva e permette di anticipare i bisogni emergenti, guardando all’integrazione delle competenze, alla loro generalizzazione nei contesti di vita e al lavoro di rete fra gli adulti di riferimento (familiari, i caregiver e insegnanti di scuola dell’infanzia) e i diversi professionisti. È fondamentale adottare una visione unitaria della persona in particolar modo in questi disturbi, che presentano un range di performance molto ampio, in cui osserviamo profili molto disomogenei, che vanno da un’estrema dipendenza alla possibilità di raggiungere una vita autonoma e soddisfazioni professionali».
Aumento delle diagnosi di autismo o falso allarme?
Gli ultimi dati arrivano dagli Stati Uniti. Il CDC (Centers for Disease Control and Prevention) ha pubblicato nel 2023 l’indagine Morbidity and Mortality Weekly Report (MMWR) che evidenzia come nel 2020, dagli 8 anni in su, un bambino su 36 (2,8%) ha ricevuto una diagnosi di ASD (Autism Spectrum Disorder). È un dato più alto rispetto al 2018, quando era stata rilevata, invece, una prevalenza di 1 su 44 (2,3%). In Italia, è 1 bambino su 77 (età 7-9 anni) a presentare un disturbo dello spettro con una prevalenza maggiore nei maschi, 4,4 volte in più rispetto alle femmine.
Si tratta di un aumento reale dei casi, di diagnosi più precoci o di una maggiore attenzione degli operatori? «Le variabili sono tantissime – risponde Bonifacio –. La prima è proprio il passaggio dalla diagnosi di autismo a quella di spettro autistico, che implica un allargamento nosografico della sintomatologia. Ormai abbiamo gli strumenti per individuare anche quei segnalatori di rischio evolutivo in bambini molto piccoli, che non vuol dire fare diagnosi, ma attuare una serie di programmi protettivi complessi anche con i genitori. Al contrario, vi sono importanti criticità quando si deve passare all’azione. Ci sono liste d’attesa molto lunghe che contrastano con l’esigenza di precocità dell’intervento e i servizi spesso non rispondono come dovrebbero. Coinvolgere e istruire i genitori nella promozione delle traiettorie evolutive più adeguate, rappresenta l’investimento più efficace per la sostenibilità dei servizi sanitari, sempre più in affanno nell’organizzazione delle risposte per la cronicità».
Intelligenza artificiale e tecnologie: nuove frontiere riabilitative?
«L’AI è una grande opportunità, se usata in modo appropriato ed efficiente – ci dice Di Lisa –. Potrà offrire la possibilità di compensare e sostenere le abilità e le performance occupazionali delle persone con spettro autistico, favorendo una reale inclusione nella società. In futuro sarà sempre più importante formarsi e formare all’utilizzo di sistemi di AI, anche nell’attesa di un numero maggiore di evidenze scientifiche che possano sostenere l’efficacia e l’efficienza dell’AI nell’ambito sanitario e nella riabilitazione».
Prosegue Bonifacio: «È inutile dire che AI e nuove tecnologie diventano una strumentazione di bordo sempre più sempre più analitica e articolata. Devono però rientrare in una progettualità più ampia, per rispondere alle esigenze specifiche dell’assistito. Non sono la panacea. Va detto che i device “pretendono” un know-how da parte del professionista che deve integrare competenze tecnico-professionali e competenze tecnologiche; dunque, l’uso di questi strumenti richiede adeguata formazione».
Troppo pochi i professionisti nei servizi pubblici
«Certo, le tecnologie non sono gratuite e le risorse del SSN sono sempre più limitate – spiega ancora Bonifacio –. Durante la pandemia la teleriabilitazione ha permesso di sfruttare strumenti come la videoregistrazione, di grande utilità per cogliere indici non verbali, segnali meno evidenti che nell’osservazione in presenza possono sfuggire. Avere la possibilità di fermare la registrazione, rallentarla o tornare indietro per rivedere le immagini consente al genitore e al terapista di cogliere dei passaggi importanti. Più abbiamo strumenti di questo tipo, più possiamo intervenire precocemente in un range di età in cui la plasticità cerebrale può favorire importanti miglioramenti delle competenze specifiche e globali. In passato incontravamo i bambini autistici a 5, 6 o 7 anni, con quadri strutturati e poco sensibili di modificabilità. Oggi si può intervenire in bambini di 15 mesi, non solo con la riabilitazione, ma soprattutto attraverso gli adulti di riferimento. Il primo lavoro è aiutare i genitori a “riagganciare” il proprio bambino. C’è da dire che in molti servizi pubblici i Tnpee non sono presenti o sono gravemente insufficienti per garantire interventi precoci, lasciando terreno fertile all’improvvisazione».