Non si placa il dibattito sul regionalismo asimmetrico, anche noto come autonomia differenziata. Ne discutiamo con Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE.
Dottor Cartabellotta, cosa pensa del Ddl sul ‘regionalismo asimmetrico’ rispetto alla possibilità di colmare l’annoso divario sanitario tra le Regioni italiane? [Formulo questa domanda utilizzando appositamente questo termine che è riportato nel Ddl…]
Concedere alle Regioni maggiori autonomie in materia di “tutela della salute” darà inevitabilmente il colpo di grazia ai princìpi di equità e universalismo che caratterizzano il Dna del nostro Servizio sanitario nazionale. Aumenteranno le diseguaglianze regionali e verrà normativamente legittimato il divario tra Nord e Sud, in violazione del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute.
Infatti, nonostante i livelli essenziali di assistenza (Lea) siano definiti dal 2001 e monitorati ogni anno dallo Stato, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i diversi sistemi sanitari regionali. Peraltro, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) sono proprio quelle che erogano i migliori servizi sanitari e hanno maggiore capacità attrattiva sui pazienti del Centro-Sud, alimentando il fenomeno della “migrazione sanitaria”. Senza contare che alcune tra le maggiori autonomie richieste dalle tre Regioni rischiano di sovvertire l’organizzazione dei servizi sanitari, ostacolando il monitoraggio del Ministero della Salute. Tutto questo, in un momento storico in cui il Paese ha sottoscritto con l’Europa il Pnrr, il cui obiettivo trasversale è proprio quello di ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali.
Da cosa dipendono le enormi differenze tra i servizi sanitari regionali? È un problema di risorse? Di capacità amministrative? O altro?
Dopo la pandemia, la sanità è stata progressivamente rimessa all’angolo
Le Regioni del Centro-Sud, dopo la riforma del Titolo V del 2001, non sono state in grado di organizzare adeguatamente i propri servizi sanitari, generando al tempo stesso enormi buchi nei propri bilanci. Di conseguenza, fatta eccezione per la Basilicata, tutte le Regioni del Centro-Sud sono finite in Piano di rientro (e la maggior parte non sono ancora uscite) o addirittura commissariate (a oggi lo sono Molise e Calabria). D’altronde, le nostre analisi indipendenti documentano la grave crisi di sostenibilità del Ssn ben prima dello scoppio della pandemia. L’imponente definanziamento pubblico di circa 37 miliardi di euro nel decennio 2010-2019; l’incompiuta del Dpcm sui nuovi Lea che aveva ampliato prestazioni e servizi a carico del Ssn senza copertura finanziaria; gli sprechi e le inefficienze; l’espansione incontrollata delle assicurazioni. Oltre alla non sempre leale collaborazione Stato-Regioni e alle aspettative spesso irrealistiche di cittadini e pazienti. In questo contesto la pandemia Covid-19 ha confermato il cagionevole “stato di salute del Ssn” e se nel pieno dell’emergenza tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di potenziare e rilanciare il Ssn, progressivamente la sanità è stata nuovamente messa all’angolo.
Pochi giorni fa, a margine della terza Giornata nazionale del personale sanitario, socio-sanitario, socio-assistenziale il ministro della Salute Orazio Schillaci, rispetto al rischio di disgregazione del Ssn con l’autonomia differenziata, ha dichiarato: “La sanità è regionale dal 2001, sono 22 anni che gran parte della sanità è affidata alle Regioni con un’offerta variabile da regione a regione. Il tema dell’autonomia differenziata è importante, ma credo che bisogna riconoscere al Ministero della Salute un ruolo guida. Chi lavora bene continua a farlo e chi magari lavora meno bene può trovare nel Ministero una guida”. Lei pensa possa coesistere una regia nazionale significativa della sanità con l’attuazione asimmetrica di ciò che dovrebbe trovare un’omogenea messa a terra sul territorio nazionale? Penso ad esempio alla sanità digitale di cui al Pnrr, al Fse ecc.
Le parole del ministro Schillaci sono ineccepibili, ma il “ruolo guida” del ministero della Salute è una chimera politica e organizzativa per tre ragioni. Innanzitutto, dopo la riforma costituzionale del Titolo V nel 2001 il ministero è stato profondamente indebolito sino, addirittura a scomparire tra i dicasteri dal 2008 al 2009.
In secondo luogo, al momento, i poteri dello Stato in ambito sanitario continuano a rimanere molto frammentati tra i vari dipartimenti del ministero della Salute e gli enti vigilati (Iss, Aifa, Agenas), spesso con sovrapposizioni di ruoli e funzioni non sempre sinergici e talora conflittuali.
Ancora, gli strumenti utilizzati per verificare l’erogazione dei Lea da parte delle Regioni sono di fatto “spuntati”: infatti, prima la “Griglia Lea” e dal 2020 il Nuovo Sistema di Garanzia configurano più strumenti di political agreement tra Governo e Regioni che mezzi per valutare adeguatamente la qualità dell’assistenza sanitaria erogata alle persone; infine, gli strumenti (piani di rientro, commissariamenti) messi in campo dal ministero per “riprendere” le Regioni del Centro-Sud hanno permesso di ottenere il riequilibrio finanziario quasi ovunque, ma non di facilitare la riorganizzazione dei servizi sanitari regionali, complice anche la lunga stagione dei tagli che ha colpito il Ssn. In definitiva, affinchè la “regia nazionale” possa realmente essere efficace serve un nuovo (e improbabile) patto politico finalizzato a potenziare gli strumenti di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni.
Il dado del Ddl autonomia differenziata però ormai è tratto. E le Regioni ad alto potenziale sanitario hanno già fatto richiesta di adesione. Quali azioni proporrebbe di mettere in campo per evitare pericolose derive che, a detta di molti, potrebbero esacerbare differenti livelli di accesso alla sanità a seconda delle regioni di residenza dei cittadini? In altre parole, come preservare equità ed universalismo del Ssn?
Il Ssn ormai da anni ha “tradito” equità e universalismo
Il Ssn ormai da anni ha “tradito” equità e universalismo, visto che si annoverano innumerevoli diseguaglianze nell’accesso ai servizi: da quelle regionali, con un gap ormai incolmabile tra Nord e Sud, a quelle tra aree urbane e rurali, sino alle diseguaglianze correlate al grado di istruzione, al reddito e al genere. A dispetto del principio fondante dell’universalismo, dunque, nei fatti oggi il Ssn garantisce una “salute diseguale”. Con il report “Il Regionalismo differenziato in sanità” abbiamo già invitato il Governo a mettere da parte posizioni sbrigative e proposto in prima istanza di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie.
In subordine, che l’eventuale attuazione del regionalismo differenziato in sanità venga gestita con estremo equilibrio, colmando innanzitutto il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese, modificando i criteri di riparto del Fabbisogno Sanitario Nazionale e aumentando le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni.
È indispensabile salvaguardare la capacità di redistribuzione del reddito senza compromettere l’esercizio dei diritti costituzionali fondamentali, in particolare quello alla tutela della salute: altrimenti, la sanità rischia di diventare un bene pubblico per i residenti nelle Regioni più ricche e un bene di consumo per quelle più povere. Già oggi il Ssn eroga un’assistenza sanitaria “diseguale” e l’universalismo è ormai diventato “selettivo”.
Uno dei punti caldi e controversi del Ddl è quello sui controlli di rispetto dei Lep (che poi sarebbero i ben noti Lea della sanità), possibili ma non obbligatori. Il rischio di un pasticciaccio all’italiana è rilevante… lei che ne pensa?
Al momento la bozza del Ddl Calderoli fa riferimento solo alla definizione dei Lep e non alla loro esigibilità, che inevitabilmente richiede dei controlli da parte dello Stato. È un capitolo tutto da scrivere e, per ciò che riguarda la sanità, da riscrivere.