La pandemia ha accelerato la diffusione della telemedicina nel nostro paese, anche se alcune realtà la utilizzavano già da anni. Soprattutto nell’ambito della cardiologia e della pneumologia, l’assistenza da remoto non è qualcosa che ci si è inventati in questi due anni di emergenza sanitaria, ma un percorso iniziato vent’anni fa, e che oggi aspetta solo un riconoscimento ufficiale a livello di indicazioni e normative nazionali.
Ad oggi, infatti, non c’è un riconoscimento ufficiale della telemedicina nei LEA, i livelli essenziali di assistenza.
Al momento, l’assistenza sanitaria da remoto è stata disciplinata solo per la televisita, con le indicazioni Nazionali per le prestazioni in telemedicina approvate un anno fa.
Manca la parte più complessa e importante (quella che serve davvero), vale a dire il telemonitoraggio.
È di pochi giorni fa, invece, la notizia che anche la riabilitazione sarà presto oggetto di indicazioni nazionali per renderne l’erogazione omogenea in tutto il territorio nazionale.
Nell’ambito della cardiologia, della pneumologia e della diabetologia, l’assistenza da remoto è un percorso iniziato già diversi anni fa
Il PNRR, lo ricordiamo, riserva un miliardo di euro alla telemedicina e in Italia, in questi mesi, sia i medici sia le strutture sono all’opera per implementare gli strumenti di telemedicina nella pratica quotidiana. Rispetto a un paio di anni fa, anche i più restii a usare questa modalità si stanno avvicinando alla telemedicina che, soprattutto per gestire pazienti cronici e fragili, sta già facendo la differenza.
Secondo le ultime analisi dell’Osservatorio delle Innovazioni digitali in sanità del Politecnico di Milano, infatti, l’81% dei medici è molto favorevole all’utilizzo di questa modalità di assistenza sanitaria.
Ma se molto spesso di telemedicina parlano esperti di sanità digitale, su Policy and Procurement in Healthcare abbiamo cercato di approfondire il tema con i clinici, i diretti interessati (oltre ai pazienti) alla corretta applicazione di questa innovazione e quelli che vogliono capire se funziona davvero. Dopo aver affrontato il tema della sua applicazione nell’ambito delle malattie neurodegenerative, abbiamo proseguito il nostro percorso dedicando una Live alle esperienze di telemedicina nell’ambito di cardiologia, pneumologia e diabetologia, intervistando Federico Bertuzzi, Direttore della Struttura Complessa di Diabetologia presso l’Ospedale Niguarda di Milano, Gianluca Polvani, Cardiochirurgo Responsabile dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia e Telemedicina Cardiovascolare del Centro Cardiologico Monzino di Milano, e Michele Vitacca, Pneumologo Responsabile della Struttura Complessa di Pneumologia Riabilitativa della Fondazione Maugeri di Lumezzane (BS).
La telemedicina non è arrivata con la pandemia
In Italia l’assistenza da remoto non è nata nel 2021, ma si fa da anni. Solo che fino allo scoppio della pandemia, si è usata poco, in modo discontinuo e a macchia di leopardo in tutta la penisola.
In alcuni casi, però, si è cercato di usarla in modo sistematico e ben prima dell’arrivo del virus SARS-COV-2. All’ospedale Niguarda di Milano, ad esempio, il team di Bertuzzi ha iniziato a utilizzare questa innovazione con i pazienti diabetici già alcuni anni fa.
“Abbiamo usato la televisita per venire incontro al paziente cronico, come il paziente con diabete mellito che, come afferma anche il Piano nazionale della cronicità, ha bisogno di una medicina che faciliti la gestione a domicilio e la partecipazione del paziente al processo di cura. In un primo studio che abbiamo effettuato qualche anno fa, è stato dimostrato come i vantaggi a favore del paziente fossero numerosi in termini economici e di risparmio di tempo, e sono stati individuati dei miglioramenti per alcuni outcome clinici. È fondamentale scegliere quali siano i pazienti per i quali sia proponibile e utile una televisita”.
La televisita andrebbe però integrata con il telemonitoraggio, un’attività abbastanza impegnativa (utile per misurare determinati parametri, di solito con l’utilizzo di specifici dispositivi da collegare in rete), che ad oggi non è stata disciplinata in modo omogeneo, come successo per la televisita. Per cui, le aziende si organizzano in modo autonomo, in attesa di avere linee guida nazionali.
“I vantaggi sono indiscutibili anche per i pazienti – riprende Bertuzzi – inoltre ci sono delle ripercussioni anche sull’attività clinica ospedaliera dei medici: per esempio, sono state introdotte delle visite di telemonitoraggio per i pazienti diabetici ricoverati nella degenza”.
Tuttavia, la telemedicina non è per tutti.
La televisita deve essere integrata con il telemonitoraggio, che ad oggi non è disciplinato in modo omogeneo
Il problema non è tanto l’età, ma il motivo per cui si richiede una visita: in caso di prima volta, l’assistenza da remoto è sconsigliata, mentre è indicata per i follow up. Che è il tipico caso del paziente diabetico: una volta che è stata scelta la terapia, si calendarizzano controlli periodici anche per monitorare i profili glicemici.
Alla Clinica Cardiologica Monzino di Milano hanno iniziato a usare la telemedicina oltre venti anni fa, per avere una gestione più globale del paziente cardiaco. Poi, nel 2006, la Regione Lombardia ha identificato un percorso di riabilitazione domiciliare post-chirurgica, riconosciuto e pagato come qualsiasi prestazione sanitaria. Qualche anno dopo è stata introdotta anche la gestione domiciliare del paziente scompensato.
“La gestione domiciliare fatta in telemedicina ha dei vantaggi enormi – sottolinea Polvani – in quanto permette subito il reinserimento sociale del paziente in ambito familiare. Sono stati gestiti migliaia di pazienti con questa modalità. Quello che ha ritardato la crescita della telemedicina in passato è il fatto che non venisse letta come una branca della medicina. Si è creduto erroneamente che il device, cioè il mezzo per monitorare, fosse la telemedicina”.
Anche nell’ambito della pneumologia, la telemedicina non nasce adesso.
“Vent’anni fa è iniziata la telemedicina anche in pneumologia e si collabora anche con i colleghi cardiologi – sottolinea Vitacca – in quanto alcune patologie croniche hanno comorbilità che vanno a sommarsi. In pneumologia, la telemedicina si è rivolta prevalentemente alla broncopneumopatia cronico-ostruttiva (BPCO), per la quale la Lombardia ha riconosciuto un programma chiamato “Nuove Reti Sanitarie”, mentre tutto ciò che non ricade nella BPCO non è ancora stato riconosciuto, come per esempio l’insufficienza respiratoria cronica, l’ossigenoterapia, la ventilazione meccanica oppure per le patologie del sonno come le apnee notturne, che hanno bisogno di macchine che usano le Cpap”.
Aderenza terapeutica, riabilitazione, monitoraggio: le prossime sfide della telemedicina
“La telemedicina – riprende Vitacca – potrebbe essere utile per le visite di follow up, per controllare gli esami e per rinnovare i piani terapeutici. Questo permetterebbe di tagliare le lunghe liste d’attesa: ma anche qui, bisogna trovare il giusto paziente e anche la giusta condizione”.
La telemedicina può rivelarsi preziosa anche per controllare l’aderenza ai farmaci, in particolare per quanto riguarda il paziente asmatico e il paziente con BPCO. In questo campo si è ancora all’inizio, c’è molto da fare e anche le aziende farmaceutiche stanno andando in questa direzione.
Un altro campo di applicazione è la teleriabilitazione, in ottica di network riabilitativo, perché non si cura soltanto la malattia, ma anche le condizioni generali dei pazienti, come il miglioramento degli stili di vita (smettere di fumare, svolgere attività fisica, ecc).
Come detto, i Lea al momento non prevedono in modo esplicito la telemedicina, senza contare che per applicarla al meglio occorre ripensare l’organizzazione del lavoro e formare le giuste competenze, sia tra medici, sia tra pazienti. Due argomenti, questi, che si stanno lasciando alla libera iniziativa delle aziende sanitarie, perché non esiste un coordinamento nazionale che finisca indirizzi precisi su come formare gli utenti e su come riorganizzare il lavoro.
L’inclusione nei Lea delle diverse attività di telemedicina è un passo essenziale
“Sul tema del telemonitoraggio – riprende Bertuzzi – c’è un progetto comune con altri otto ospedali lombardi e ci sono state risposte positive anche con l’associazione dei pazienti, tanto che una di queste ha addirittura finanziato una parte del progetto perché rispondente a una delle necessità che oggi non trovano un’attenzione precisa nella gestione dei processi sanitari per la diabetologia. Da questa collaborazione si cerca di portare dati ed esperienze da proporre in Regione per riuscire ad ottenere per il riconoscimento formale dell’attività di telemonitoraggio nel diabete mellito”.
Per Bertuzzi, l’inclusione nei Lea è un passo essenziale: “Il riconoscimento del telemonitoraggio anche glicemico deve avvenire di pari passo con la pratica clinica, perché viene portata avanti un’attività solo se questa viene riconosciuta. Bisogna lavorare nell’ottica di accelerare questo processo di riconoscimento: senza, si va avanti solo con il finanziamento dei pazienti e con i progetti aziendali”.
Come si calcolano i vantaggi e i costi della telemedicina?
Una delle critiche (poche, ormai) che si fanno alla telemedicina è il fatto di non disporre di analisi adeguate di costo-efficacia.
Ma nell’ambito della cardiologia, uno dei settori dove si è fatta più esperienza in questo senso, i dati esistono. E sono positivi.
“In Lombardia – sottolinea il cardiochirurgo del Monzino – il calcolo costo-efficacia della telemedicina si fa periodicamente. Si è dimostrato come la gestione domiciliare del paziente post cardio-chirurgico sia economicamente più vantaggiosa e, dal punto di vista clinico, uguale alla riabilitazione fatta in ambito ospedaliero”.
Pensare che la telemedicina serva per accorciare i tempi delle visite è un errore concettuale da scartare immediatamente.
In Lombardia è stato calcolato che la gestione domiciliare del paziente post cardio-chirurgico è economicamente più vantaggiosa e parimenti efficace alla riabilitazione ospedaliera
La telemedicina non nasce per abbreviare le visite, né tantomeno per allungarle. Altrimenti il medico potrebbe preferire sempre le visite in presenza. Con la telemedicina, il modo di approcciarsi alla medicina cambia, in un certo senso, ma il grande ostacolo oggi è far capire alle persone che l’assistenza da remoto non è meno qualificata di quella in presenza.
“Questa visione per cui il paziente crede che se il medico non è davanti a lui in carne e ossa non possa curarlo per la sua malattia è una visione che deve scomparire – rimarca Polvani – in emergenza sanitaria sono stati gestiti un numero importante di pazienti Covid positivi a domicilio e i risultati sono stati molto buoni, quindi bisogna spiegare che la telemedicina è una branca della medicina e bisogna avere una visione amministrativo-gestionale che dia linee definite per tutti”.
La telemedicina deve essere vista come uno strumento, non un fine
Per Vitacca, la telemedicina deve essere vista come uno strumento, non un fine: “Così come esiste il fonendoscopio, l’ecografo, il tempo per stare in pronto soccorso in ambulatorio o in un reparto medico e un tempo per la terapia intensiva, così anche la telemedicina è uno strumento che va utilizzato sul paziente giusto, perché se lo si utilizza sul paziente sbagliato e nel tempo sbagliato, non si fa una buona telemedicina. Quindi bisogna pensare e riorganizzare il proprio modo di lavorare, impostare nuovi percorsi e sviluppare nuove competenze e conoscenze, sia da parte del personale medico sia di quello non medico che in questi anni è stato fondamentale nella cogestione del case management, cioè del trattamento del caso clinico che viene seguito nell’arco della sua cronicità”.
Il paziente deve accettare la telemedicina, ma anche gli specialisti devono imparare a usarla in collaborazione con i colleghi del territorio. Soprattutto per gestire la cronicità in modo efficace: “Perché è un fallimento vedere i pazienti cronici rientrare in ospedale dopo 30 giorni: significa che la cronicità si sta gestendo nel modo sbagliato” ha concluso Vitacca.
Competenze digitali e interfacce semplici
Si dice spesso che la telemedicina in Italia faccia fatica a decollare a causa della scarsa cultura digitale. È vero che siamo fra gli ultimi in Europa in questo ambito, ma è anche vero che chiunque abbia un telefonino sa usare WhatsApp. Quindi?
“Tutti utilizzano WhatsApp – spiega il diabetologo – sia le persone più anziane sia i giovani che conoscono anche tutte le piattaforme social, il problema semmai sta nel semplificare le interfacce utente di queste nuove piattaforme, perché nessuno ha problemi a fare una videochiamata con whatsapp, però invece utilizzare una televisita richiede un po’ più di studio”.
Progettare le piattaforme di telemedicina insieme a clinici e pazienti potrebbe fare la differenza in termini di usabilità e accesso
Non bisogna solo migliorare l’interfaccia utente: anche progettare queste piattaforme insieme a clinici e pazienti, potrebbe fare la differenza: “Spesso queste piattaforme nascono in ambienti ingegneristici – sottolinea Vitacca – e non tengono conto del clinico oppure il clinico vorrebbe la piattaforma in un certo modo, ma senza tener conto delle necessità informatiche, quindi ci vorrebbe un team in cui si sviluppi una piattaforma efficiente, ma allo stesso tempo di facile utilizzo da parte sia dei clinici sia dei pazienti”.
Anche perché WhatsApp, telefono ed e-mail non sono considerati atti medici e non attengono alla telemedicina, che deve essere somministrata su piattaforme specifiche e, se si prevedono sistemi integrati di telemonitoraggio, devono essere certificati come medical device.
La strada è ancora lunga e un modo per velocizzare l’applicazione della telemedicina a livello nazionale potrebbe essere proprio quello di prendere esempio da realtà già rodate, come quelle del Niguarda per la diabetologia, del Monzino per la cardiologia e dell’IRCSS Maugeri per la pneumologia. Le varie società scientifiche stanno gradualmente proponendo manuali per la telemedicina nei diversi ambiti di competenza. Tutti segnali positivi che confermano quanto il percorso ormai sia ben delineato, anche se i nodi legati alle competenze digitali, alla formazione, alla gestione delle cronicità e alla corretta condivisione dei dati rimangono all’ordine del giorno e dovrebbero essere considerati una priorità, per fare in modo che la telemedicina si usi davvero in modo omogeneo e sia accessibile a chi ne ha bisogno.