Ricerca clinica, tra gli insegnamenti della storia e le sfide di domani

Oggi le sperimentazioni cliniche seguono iter ben delineati e controllati, sono suddivise in fasi e si realizzano tramite trial clinici randomizzati. Ma non è sempre stato così. Anche per la ricerca clinica la storia inizia centinaia di anni fa, e le sfide del futuro sono ancora più difficili.

Oggi le sperimentazioni cliniche seguono iter ben delineati e controllati, sono suddivise in fasi e si realizzano tramite trial clinici randomizzati. Ma non è sempre stato così.

Come per la storia dei farmaci che abbiamo affrontato nella prima puntata, anche per la ricerca clinica la storia inizia centinaia di anni fa. Con osservazioni, prove, tentativi. Dalle torture inflitte dai nazisti al consenso informato di oggi, la strada è stata lunga e impervia. E le sfide del futuro sono ancora più difficili.

I sette principi di Avicenna

La sperimentazione clinica dei farmaci riguarda qualsiasi studio rivolto alla scoperta o verifica degli effetti di un nuovo farmaco, o di un farmaco già esistente, testato per nuove modalità di impiego terapeutico, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia.

Fin dalla preistoria uomini e donne sono portati a osservare gli effetti di determinate azioni sull’organismo. L’osservazione è la base di qualsiasi ricerca clinica e della stessa evidence based medicine.

L’osservazione è la base di qualsiasi ricerca clinica e della stessa evidence based medicine

Con Ippocrate, padre della moderna medicina, si arriva a teorizzare in modo più concreto il concetto di “osservazione del paziente”.

Ma per parlare in modo sistematico di studio clinico dobbiamo arrivare al 1025, grazie all’approccio sistematico introdotto da Ibn Sīnā, noto in occidente come Avicenna (Afshana 980 – Hamadan 1037): medico, filosofo matematico e fisico persiano, una delle figure più note del mondo islamico, a cui si deve l’opera “Il canone della medicina”, che diverrà il trattato medico di riferimento fino al 1700.

Avicenna indicò sette principi da seguire durante la sperimentazione di nuovi farmaci, riconosciuti validi ancora oggi:

  1. il farmaco deve essere esente da effetti collaterali accidentali
  2. il farmaco deve essere utilizzato su una malattia semplice (non complessa)
  3. deve essere testato in diverse malattie, perché può essere utile nella cura di una malattia per le sue qualità intrinseche ma anche di un’altra per altre proprietà, del tutto accidentali (la cosiddetta serendipità)
  4. le qualità del farmaco devono essere proporzionate alla gravità della malattia
  5. il tempo d’azione del farmaco è fondamentale e va valutato per non confondere tra loro proprietà intrinseche e/o accidentali
  6. l’effetto del farmaco va confermato provandolo su un gran numero di casi e in modo costante
  7. il medicinale deve essere testato sull’uomo prima di dare giudizi o considerazioni in merito alla sua efficacia: “testare un farmaco in un leone o in un cavallo non prova nulla circa il suo effetto sull’uomo”.

Queste sette regole sono praticamente le basi della farmacologia moderna e dell’approccio investigativo utilizzato oggi nella pratica clinica e rappresentano i pilastri dell’evidence based medicine di oggi.

La prima sperimentazione clinica della storia

Per arrivare al primo trial clinico randomizzato dobbiamo però attendere il XVIII secolo. Il primo studio clinico della storia è da attribuirsi infatti all’inglese James Lind (Membro della Royal Navy e studioso di igiene navale e medicina preventiva nel Regno Unito) che, nel 1747, riuscì a dimostrare l’efficacia dell’acido ascorbico come cura dello scorbuto (patologia molto diffusa tra i marinai), attraverso quella che può essere definita la prima forma di studio-controllato. Lind selezionò 12 marinai affetti da scorbuto, li divise in 6 coppie, dando a ognuna una dieta arricchita con 6 diversi elementi:

  • sidro
  • elisir di vetriolo
  • aceto
  • acqua di mare
  • noce moscata
  • arance e limoni

Al termine dell’esperimento Lind concluse: “La conseguenza fu che i più lampanti e ben visibili effetti curativi furono ottenuti dall’uso di arance e limoni”.

Nel 1811 si segna un altro importante passo avanti nella storia della ricerca e sperimentazione, con l’introduzione del concetto di placebo, definito come “sostanza utilizzata più per compiacere che per beneficiare.”

Fu utilizzato però per la prima volta, in maniera scientifica, dal medico statunitense Austin Flint (1812 – 1886) che mise a punto uno studio clinico per la cura della febbre reumatica: la sua sperimentazione si basava sul confronto degli effetti di un principio attivo con un farmaco fittizio, ossia ciò che in seguito sarà definito come placebo.

Dal codice di Norimberga alle Good Clinical Practice

La storia della ricerca clinica evolve con il progresso non solo della scienza, ma anche dell’etica, che dovrebbe esserne pilastro principale. Non c’è buona sperimentazione senza etica e senza rispetto verso i pazienti che vi partecipano.

In seguito alle aberranti sperimentazioni messe in atto durante la Seconda guerra mondiale vennero definiti codici per promuovere una ricerca etica, basata sul consenso volontario dei partecipanti quale requisito giuridico essenziale. Fra questi citiamo:

  • il Codice di Norimberga (1947), scritto dopo il più famoso processo della storia, dove in 10 punti viene tracciata la linea di separazione tra sperimentazione lecita e tortura
  • la Dichiarazione di Helsinki (1964) elaborata dalla World Medical Association, che amplia il Codice di Norimberga ed è stata aggiornata più volte per adeguarsi a nuovi concetti emersi nel campo della bioetica. Il consenso dei partecipanti diventa da “volontario” a “informato”; si prevede l’intervento di un tutore legale nel caso di persone non in grado di fornire tale consenso e si prevede la valutazione e approvazione del Protocollo di studio da parte di un comitato etico

La storia della ricerca clinica si evolve con il progresso della scienza e dell’etica

  • GCP (Good Clinical Practice), le norme di Buona Pratica Clinica sono state adottate dall’Unione Europea nel 1996 per uniformare la conduzione dei trials clinici a livello europeo e per attribuire uno standard internazionale uniformemente riconoscibile e accettabile. Fra gli obiettivi troviamo quello di tutelare il benessere dei partecipanti all’interno dei trials, oltre a garantire che i dati raccolti siano attendibili ed accurati. Le linee guida specificano inoltre come devono essere condotti gli studi clinici, definiscono il ruolo e le responsabilità degli Sponsor, degli Sperimentatori e dei Monitor(anche conosciuti come CRA, Clinical Research Associate).

Le fasi della sperimentazione clinica

I trial clinici oggi si realizzando in 3 o 4 fasi. C’è una fase 0, detta preclinica (cioè non viene fatta sull’uomo), e consiste nello studio, in cellule e animali di laboratorio, delle proprietà chimiche e farmacologiche della sostanza che si vuole sperimentare. In questa fase si identificano le molecole potenzialmente utili, ossia quelle che in laboratorio dimostrano di essere più attive contro la patologia considerata, nonché meglio tollerate dall’organismo. Nella fase successiva la molecola ritenuta “migliore” tra quelle valutate, viene avviata alla cosiddetta sperimentazione clinica, ovvero testata negli esseri umani.

Le altre fasi sono:

  • Fase 1 – sicurezza clinica
  • Fase 2 – studio di efficacia
  • Fase 3 – studio multicentrico
  • Fase 4 – sorveglianza post marketing

Un accenno sulla fase 4. Questo periodo comprende gli studi condotti dopo l’approvazione del farmaco nell’ambito delle indicazioni approvate e in conformità a quanto previsto dal “Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto (RCP)”; è detta appunto “sorveglianza post marketing” perché viene attuata dopo l’immissione in commercio.

Con questa procedura, è possibile acquisire quelle informazioni che nelle fasi iniziali non potevano emergere, ma che ora, con un uso su larga scala del farmaco, possono diventare rilevabili ed essere valutate (si attua quindi un’attività di farmacovigilanza). Per fare un esempio concreto: la fase 4 è quella che stiamo vivendo adesso con la somministrazione dei vaccini anti COVID nella popolazione generale (e, nel caso, si tratta di vaccinovigilanza).

Dalla progettazione di un farmaco alla sua autorizzazione all’immissione in commercio passano in media dai 10 ai 12 anni, ma il percorso può durare anche molto di più.

Se queste sono le basi alle quali si deve attenere la sperimentazione di un farmaco, viene da chiedersi come mai il vaccino per la COVID-19 sia stato messo a punto in tempi così rapidi. Questo perché la sperimentazione, nella pandemia che ci ha colpito, si è svolta in modalità orizzontale e parallelo in alcune fasi, coinvolgendo tutte le nazioni del mondo in grado di contribuire sia dal punto di vista scientifico, sia da quello economico, al fine di trovare un rimedio nel minor tempo possibile. Come ci ricorda l’Istituto superiore di Sanità nel rapporto Aspetti di etica nella sperimentazione di vaccini anti-COVID-19 dello scorso febbraio, anche se la pandemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2 spinge a sperimentare e approvare nuovi vaccini in tempi brevi, devono comunque essere rispettati i criteri di etica e tutti gli aspetti scientifici e metodologici e gli aspetti regolatori che stanno alla base di qualsiasi sperimentazione per i vaccini. Il documento evidenzia la necessità di non derogare al rigore nella metodologia e dell’etica, anche in condizioni di emergenza.

Anche nell’emergenza, la sperimentazione non può prescindere dal rigore della metodologia e dell’etica

Pertanto, in un contesto in cui l’esigenza primaria era di concludere le sperimentazioni con la massima celerità̀ possibile, era necessario evitare ritardi nelle procedure autorizzative, senza cedere però sul fronte del rigore nella metodologia scientifica: era importante arrivare presto, ma lo era ancor più arrivare bene.

Sotto la pressione della pandemia, le sperimentazioni di vaccini anti-COVID-19 hanno visto l’attuazione di procedure impensabili fino a poco tempo prima (es. velocizzazione dei tempi nelle fasi procedurali) e adottato pratiche del tutto eccezionali nell’ambito della sperimentazione umana (es. “challenge studies”, con deliberata infezione dei volontari sani partecipanti). Queste innovazioni son destinate a fare la storia, hanno segnato un punto di svolta nella sperimentazione clinica e potrebbero continuare a essere implementate anche dopo l’emergenza sanitaria. Da sottolineare infine il fondamentale incentivo allo sviluppo della ricerca dato dalla straordinaria disponibilità di risorse economiche pubbliche attuata in alcuni Paesi, anticipati in questo dal Governo USA.

Secondo il Rapporto dell’ISS, questa sperimentazione avrà una valenza soprattutto sotto il profilo etico, con ripercussioni oltre la pandemia che stiamo vivendo, e non si limiterà a riflettersi sui vaccini approvati o in studio.

La ricerca clinica in Italia

Oggi la ricerca clinica in Italia coinvolge numerosi enti: l’AIFA per l’autorizzazione degli studi ed emendamenti di ogni fase, l’Istituto Superiore di Sanità per il parere consultivo sugli studi ed emendamenti di Fase I, i Comitati Etici per i pareri di merito nelle strutture sanitarie in cui si svolge lo studio clinico, le Direzioni Generali delle strutture sanitarie per la definizione dei contratti, il network Eudravigilance, banca dati europea per la gestione e l’analisi delle sospette reazioni avverse, serie e inattese, dei farmaci in corso di sperimentazione, i promotori e i ricercatori direttamente coinvolti nello svolgimento delle singole sperimentazioni cliniche.

Il ruolo dell’AIFA, presente anche nel network europeo delle Autorità Competenti per le sperimentazioni cliniche, è quello di indirizzare su tutti gli aspetti che riguardano i farmaci sperimentali.

L’accesso ai farmaci sperimentali è opportunamente regolamentato per tutelare i pazienti e la comunità

L’accesso ai farmaci sperimentali è opportunamente regolamentato al fine di tutelare la comunità da possibili effetti collaterali che potrebbero insorgere, alcuni anche molto gravi, come conseguenza dell’assunzione del farmaco. Un esempio riguarda il caso di una sostanza, la talidomide, che negli anni ’60 fu commercializzata come antinausea alle donne in gravidanza, ma che purtroppo fu responsabile della nascita di migliaia di bambini focomelici (una malattia congenita che induce la comparsa di anomalie anatomiche a livello di arti superiori, arti inferiori, testa, volto, organi interni ecc.) nella sola Europa.

La sperimentazione clinica, in quel caso, non aveva coinvolto animali gravidi, e pertanto non era stato possibile verificare eventuali effetti sul feto.

 

Parlando di farmaci e sperimentazione è necessario considerare anche quelli che rientrano nella fascia cosiddetta di uso compassionevole.

Si tratta di cure che possono essere somministrate, dietro precisa volontà del paziente e sotto sorveglianza e richiesta del medico curante, al di fuori di un iter di sperimentazione e non ancora giunti alla fine delle fasi di studio.

Dopo il nulla osta del comitato etico dell’ospedale di riferimento, il paziente riceve le dovute spiegazioni sui pro e sui contro ed è vincolato a firmare un consenso informato.

Il farmaco deve aver completato e superato almeno la fase 3 dell’iter di sperimentazione, e l’azienda produttrice deve essere disposta a fornirlo.

Le garanzie previste hanno proprio la funzione di evidenziare quanto questa procedura rivesta carattere eccezionale.

 

Per completezza citiamo anche le prescrizioni dei farmaci off label.

Si definisce “off-label” l’impiego nella pratica clinica di farmaci usati al di fuori dell’indicazione terapeutica per la quale sono stati autorizzati. L’uso off label riguarda, molto spesso, molecole conosciute e utilizzate da tempo, per le quali le evidenze scientifiche suggeriscono un loro razionale uso anche in situazioni cliniche non approvate da un punto di vista regolatorio. Questa pratica è ampiamente diffusa in vari ambiti della medicina, quali, ad esempio, oncologia, reumatologia, neurologia e psichiatria e riguarda la popolazione adulta e quella pediatrica. In campo pediatrico, specialmente a livello neonatale, una cospicua parte delle prescrizioni sia in ospedale sia sul territorio sono off label.

 

E terminiamo con il riposizionamento dei farmaci, o drug repositioning.

Come affermò James Black, farmacologo e premio Nobel per la fisiologia o la medicina del 1988, “Il modo più fruttuoso per scoprire un nuovo farmaco è partire da un vecchio farmaco.”

Il drug repositioning è proprio questo: cercare e testare nuovi utilizzi per farmaci già approvati dalle autorità regolatorie. Il riposizionamento può essere considerato anche per molecole non ancora approvate ma utilizzate in studi clinici, chiamate “investigational drug”.

L’esempio di riposizionamento più famoso è il sildenafil, la pillola blu nota in tutto il mondo come Viagra: approvato per trattare l’angina pectoris, è diventato poi famoso in tutto il mondo per la disfunzione erettile.

E per riprendere il caso sfortunato della talidomide per le donne in gravidanza, questo farmaco si è invece rivelato utile contro il mieloma multiplo.

Le nuove sperimentazioni: terapie geniche o tissutali

Sperimentare una terapia innovativa, come quella genica o tissutale, non è come sperimentare una molecola chimica. Le terapie geniche, ad esempio, utilizzano gli acidi nucleici come farmaci.

Grazie agli studi condotti in ambito di ingegneria genetica è possibile manipolare i geni e costruirne in laboratorio di nuovi che risultino funzionali per correggere un particolare difetto genetico.

La difficoltà di un simile approccio terapeutico è quella di inserire tale gene nelle cellule del malato.

A questo scopo si possono seguire due diverse metodologie:

  • il trasferimento di geni ex vivo;
  • il trasferimento di geni in vivo.

Nel primo caso si trasferiscono geni clonati in cellule autologhe, ovvero provenienti dallo stesso individuo, per evitare che le stesse vengano rigettate dal sistema immunitario del paziente trattato.

Questo metodo è applicabile ai soli tessuti che possono essere prelevati dal corpo, modificati geneticamente e reintrodotti nel paziente, dove possono attecchire e sopravvivere per un lungo periodo di tempo, come ad esempio le cellule del sistema ematopoietico e della pelle. Tale procedura è sicuramente lunga e costosa ma molto efficiente.

La terapia genica in vivo viene attuata invece in tutti quei casi in cui le cellule non possono essere messe in coltura o prelevate e reimpiantate.

In questo caso il gene d’interesse viene inserito nell’organismo, tramite un opportuno vettore, direttamente per via locale o sistemica.

Si utilizzano in genere vettori virali, cioè virus ingegnerizzati capaci di trasportare il gene terapeutico e inserirlo nelle cellule bersaglio.

In pratica il virus viene privato del proprio genoma e quindi reso innocuo, ma conserva la sua capacità di “infettare” le cellule.

Il suo intento è quindi di agire come una specie di “Cavallo di Troia”: trasferire nelle cellule il gene terapeutico, esaurirsi una volta terminato questo passaggio, e lasciare nella cellula le “istruzioni” per correggere il difetto.

Il maggiore ostacolo in questa metodica è rappresentato dalla difficoltà di trovare l’adeguato vettore virale, in grado di raggiungere un livello di efficienza sufficiente per infettare tutte le cellule bersaglio.

Un’altra criticità riguarda la possibilità che il virus ingegnerizzato venga riconosciuto come corpo estraneo dall’organismo e scateni una reazione immunitaria.

Un terzo problema è rendere l’espressione del gene terapeutico persistente nel tempo senza bisogno di doversi sottoporre a continui trattamenti.

Rimane anche il rischio che il virus dia origine a particelle capaci di riprodursi in modo incontrollato, trasportando all’interno della cellula anche dei componenti tossici (come le proteine del capside, la struttura proteica che racchiude l’acido nucleico del virus).

Sono numerosi i virus pensati come vettori per la terapia genica, ciascuno con capacità ed efficienza diversa a seconda del tipo di cellule e degli organi bersaglio.

Fra le terapie geniche di ultima generazione, una delle più conosciute è quella denominata CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T cell therapies). Questa tecnica si basa sull’ingegnerizzazione genetica dei linfociti T del paziente in modo tale da potenziarli per combattere i tumori.

Le CAR-T rappresentano la prima forma di terapia approvata per malattie come leucemia linfoblastica B e alcune forme aggressive di linfoma non-Hodgkin.

Nel campo oncologico stanno facendo la differenza anche le terapie cosiddette agnostiche, che mirano a un determinata mutazione genetica del tumore indipendentemente dalla sua sede (da qui la definizione di agnostico).

Fino a poco tempo fa, infatti, i farmaci sono sempre stati approvati in base alle caratteristiche istologiche del tumore o all’organo di provenienza. Nel tempo però si è fatta strada l’idea che i responsabili di un tumore siano una o più alterazioni molecolari. Le terapie agnostiche hanno come target proprio specifiche anomalie genomiche o caratteristiche molecolari, indipendentemente dal sito di origine del tumore.

Le terapie digitali

Una considerazione a parte è da fare per la sperimentazione delle terapie digitali, una via di mezzo tra cura e dispositivo medico, che più che curare a livello biologico, intervengono sui comportamenti degli individui. Ne abbiamo già accennato nella prima puntata dedicata alla storia dei farmaci, qui ci limitiamo ad approfondire il discorso sulla sperimentazione di queste terapie sui generis.

Come per i farmaci, anche le Digital Therapeutics (abbreviate Dtx) possono essere approvate solo con rigorose sperimentazioni cliniche.

Nello specifico, devono essere:

  • sviluppate attraverso sperimentazione clinica randomizzata e controllata
  • autorizzate per l’utilizzo nella pratica clinica da enti regolatori
  • sottoposte, quando necessario, ai fini del rimborso a valutazioni HTA
  • rimborsate, in alcuni casi, da servizi sanitari pubblici
  • prescritte dal medico

La differenza tra le terapie digitali e i farmaci riguarda il “principio attivo”, ovvero l’elemento della terapia responsabile dell’effetto clinico desiderato: molecola chimica, o proteica, nel caso del farmaco, un algoritmo nel caso della terapia digitale.

La terapia digitale può essere prescritta come cura indipendente o come integrazione a una terapia farmacologica. Rappresenta una nuova metodologia nel trattamento delle patologie croniche associate a stili di vita e comportamenti disfunzionali, laddove la terapia farmacologica abbia raggiunto solo risposte parziali.

Oltre a questo, le DTx offrono anche altri vantaggi, perché consentono ai medici di raccogliere da remoto i dati dei pazienti in tempo reale, nonché di seguirne i progressi del paziente e l’accurata adesione al trattamento. Non sono semplici applicazioni, come le migliaia che già esistono nei vari store online, ma veri e propri interventi curativi, in grado di migliorare i risultati clinici al pari di un trattamento farmacologico, o, come abbiamo viso, in modalità interattiva con lo stesso.

Possono assumere la forma di applicazioni o app, videogiochi, siti web, o addirittura dispositivi indossabili (wearable).

Dal punto di vista della regolamentazione rientrano tra i dispositivi medici (ad oggi normate dal Regolamento UE MDR 2017/745,in vigore dal 26 maggio 2021).

Il futuro della sperimentazione clinica

Come abbiamo visto, la ricerca clinica ha compiuto importanti evoluzioni negli ultimi anni. E nell’ultimo, in particolare, è stata completamente rivoluzionata nella velocità di esecuzione. Ma le sfide all’orizzonte sono numerose, a cominciare da un necessario coinvolgimento più attivo dei pazienti, che non vogliono esseri meri sottoscrittori di consensi firmati, fino alla sperimentazione sesso-genere e pediatrica, due ambiti che al momento sono autentiche chimere.

La sperimentazione sui bambini non si è fatta, per oggettive difficoltà principalmente basate su ragioni etiche. I farmaci pediatrici hanno la stessa formulazione di quelli per gli adulti ma sono somministrabili in dosi e tempi diversi, con correzione della dose in base alla superficie corporea nella fase neonatale oppure al peso ponderale del bambino.

Giorgio Cantelli Forti“Ma un bambino non è un piccolo adulto – spiega il professor Giorgio Cantelli Forti – ma un essere in continua, rapida e varia trasformazione nella dinamica dalla nascita alla pubertà e che per questo ha attenzioni ed esigenze diverse rispetto a quelle di un adulto. La sperimentazione sui bambini è un tema che si è messo da parte da troppo tempo, perché molto complesso e scottante. Ma andrà affrontato prima o poi. Fino ad oggi abbiamo adattato farmaci per adulti a bambini, ma non può essere questo il modo giusto di curare la popolazione pediatrica”.

Discorso simile per la sperimentazione clinica per sesso-genere. Nei trial le donne vengono di solito poco coinvolte per diverse cause, come alterazioni ormonali, ciclo mestruale, ed eventuale gravidanza, tutti elementi che possono inficiare lo studio o mettere a rischio il feto, in casi di gestazione.

“Anche quando si fa sperimentazione pre-clinica – continua l’ex presidente della Sif – si coinvolgono animali maschi. È un bias che sottende tutta la sperimentazione ma quando poi si approva il farmaco, a quel punto lo si somministra anche alle pazienti, pur non avendolo mai testato adeguatamente su questa parte di popolazione. Il rischio è che il farmaco non agisca in modo appropriato con alterato o nullo effetto nella risposta terapeutica ovvero con effetto tossico e sortisca effetti indesiderati. Anche di questo se ne parla da tempo, ma poco si è fatto”.

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Angelica Giambelluca
Giornalista professionista in ambito medico