Il farmaco: dalle piante alle terapie geniche, una storia millenaria

Dai semi alle terapie digitali, dalle pillole alle biotecnologie, passando per la terapia genica, fino ai vaccini a mRna. Breve viaggio nella storia del farmaco, con il commento di Giorgio Cantelli Forti, Professore Emerito di Farmacologia e Farmacoterapia, Università di Bologna.

Dai semi alle terapie digitali, dalle pillole alle biotecnologie, passando per la terapia genica, fino ai vaccini a mRna. La storia del farmaco è millenaria. Complessa, travagliata, affascinante. Unisce nella medicina la farmacologia con la ricerca clinica e si evolve con l’evoluzione dell’uomo e secondo le specificità dell’individuo. I farmaci del futuro saranno sempre più personalizzati, cuciti sui bisogni specifici della persona. E per questo saranno sempre più efficaci e meglio tollerati.

Questa è la prima di due puntate che raccontano la storia del farmaco e della sua sperimentazione. Oggi vi parliamo della storia del farmaco, nella prossima puntata affronteremo la storia della ricerca sperimentale dei farmaci.

Che cos’è un farmaco

Iniziamo dalle basi. Un farmaco è un prodotto, naturale o di sintesi, in grado di agire sulle funzioni di un organismo vivente, attraverso l’azione del principio attivo che lo caratterizza, vale a dire la sostanza responsabile del suo effetto terapeutico.

Nel tempo, per realizzare la forma farmaceutica sono stati aggiunti una serie di eccipienti, ossia componenti inattivi, privi di ogni azione curativa, ma che aiutano a rendere la formulazione somministrabile ai pazienti nelle modalità più sicure e idonee.

Dalle compresse ai software, il farmaco ha assunto nuove forme e accezioni sempre più complesse

Un farmaco può presentarsi sotto forma di compresse, pastiglie, sciroppo, granulati, pomate, liquido per iniezioni, o altra forma farmaceutica, che possa adattarsi a pazienti di ogni età e in ogni condizione. Con le terapie geniche sono gli stessi geni i principi attivi, con i farmaci biologici possono essere anticorpi monoclonali, con le terapie digitali il principio attivo è un software.

È evidente che il farmaco ormai ha un’accezione così vasta da non poter essere chiamato solo così.

Le prime medicine

La parola farmaco deriva dal greco φαρμακον, pharmakon, che vuol dire “rimedio, medicina”, ma anche “veleno”. Vediamo perché.

Secondo alcuni studiosi l’origine dei farmaci coincide con quella dell’umanità. Il medicamento è qualcosa che l’uomo e la donna cercano fin dalla loro comparsa sulla terra. Ed è da sempre frutto dell’osservazione. I nostri antenati hanno scoperto proprietà benefiche di semi e frutti dopo averle masticate e aver osservato cosa succedesse. È successo circa un milione di anni fa e da allora, anche se i metodi e le tecnologie sono cambiate, la comunità continua a basarsi sull’osservazione per sperimentare nuove cure.

Si tratta di esperienza diretta, non ci sono sperimentazioni in vitro o sugli animali. Si prova una pianta e si vede che succede.

Il medicamento è da sempre frutto dell’osservazione

Un altro elemento d’osservazione è l’effetto sull’uomo di morsi di animali ritenuti velenosi, come i serpenti, oppure di reazioni indesiderate, se non addirittura mortali, che derivano dall’utilizzo di alcune piante.

Con la presa di coscienza della malattia, ossia un cambiamento nell’organismo inosservato fino a quel momento ma che percepiscono come ostile, i nostri predecessori iniziano a cercare qualcosa nel mondo circostante, in grado di guarirli – anche se il significato di questo termine coincide più che altro con lo “stare bene” – o di alleviare il loro dolore.

Giorgio Cantelli FortiE quella ricerca non è mai finita: “La necessità di salute, di stare bene, accompagnerà sempre l’umanità – esordisce il professore Giorgio Cantelli Forti, Emerito di Farmacologia e Farmacoterapia presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, già presidente della Società Italiana di Farmacologia (SIF), e attualmente Presidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura. – Pertanto oggi sempre più si assiste al ruolo centrale che ha assunto la Farmacologia, come scienza e disciplina di cui deve necessariamente impadronirsi e aggiornarsi ogni medico nonché ogni professionista del settore della sanità. Oggi si richiede che una buona diagnosi debba essere accompagnata da una prescrizione terapeutica appropriata, principalmente basata su conoscenza aggiornata e approfondita del ‘farmaco’ come ‘rimedio’, in continua evoluzione grazie allo sviluppo delle conoscenze e all’evoluzione delle tecniche e metodologie”.

Come scrive il farmacologo Luciano Caprino nel libro “Il Farmaco, 7000 anni di storia” (Armando Editore), nel corso dei secoli, uomini e donne iniziano a riconoscere quali sostanze, provenienti dal mondo vegetale, possono ritenersi “terapeuticamente utili” e a distinguerle da quelle dannose o velenose. Apprendono come servirsi sia di sostanze tossiche, sia benefiche. Il punto infatti, oggi come allora, è che è la dose che fa il veleno. E sostanze nocive, se assunte in dosi minime, possono essere benefiche. Un’appropriata definizione storica definisce il “farmaco come un veleno dato a dosi terapeutiche”.

Dalla medicina ayurvedica indiana al papiro di Ebers egiziano

Ma non è solo l’Occidente il custode della farmacologia. Risalgono a circa 5000 anni fa in Asia, in alcuni templi indù sul fiume Jumna, alcune prove del fatto che la farmacologia inizia a svilupparsi anche in India, nelle rigogliose foreste lungo le rive del Gange, come parte integrante della medicina ayurvedica, il cui scopo è quello di aiutare le persone malate a curarsi e le persone sane a rimanere in salute e prevenire le patologie, attraverso l’equilibrio del dosha, l’insieme di tre energie vitali (chiamate pittavata e kapha). Questo tipo di medicina nasce proprio in India: in antichi testi indiani si trovano elencate centinaia di piante tra cui il ricino “che scaccia i venti dell’intestino e guarisce la colica”, e altri come l’oppio e la noce vomica, definiti inebrianti e narcotici.

Anche la Cina è custode di antiche tradizioni farmacologiche. La ricerca di farmaci in questo paese inizia con l’Imperatore Shen Nung (~ 2000 a.C.) che studia, provandole su sé stesso, le capacità terapeutiche di alcune centinaia di erbe. A lui viene fatto risalire il primo erbario cinese, che elenca ben 365 farmaci.

India, Cina e Antico Egitto hanno sviluppato importanti tradizioni farmacologiche

Anche gli antichi Egizi conoscono le virtù dei medicamenti e l’arte di somministrarli. A confermarlo è il Papiro di Ebers, scoperto nel 1873 dall’egittologo Georg Moritz Ebers e risalente al 1500 a.C., ma la sua datazione si riferisce con tutta probabilità ad almeno un millennio prima. Il trattato contiene modalità di preparazione di medicamenti a base di piante, miscelazione, triturazione o riduzione in polvere o decotto, e di assunzione, ingestione, inalazione o applicazione esterna. Purtroppo, è stato possibile identificare solo alcune piante citate nel papiro: molti dei nomi elencati sono riferiti a rimedi dei quali si ignora il contenuto. Fra quelli riconosciuti troviamo l’olio di ricino, la senna, il melograno, il tannino, l’oppio, l’aloe, la menta, il ginepro, il cumino e il finocchio.

Dai riti religiosi al metodo scientifico

L’arte di servirsi dei medicamenti – ricavati all’inizio dalla sola natura circostante – risale quindi a ben prima delle nascita di colui che viene considerato il “padre della medicina moderna”: Ippocrate di Kos, medico, geografo greco (460 a.C. circa – Larissa, 370 a.C), al quale si deve la rivoluzione del concetto di medicina, fino a quel momento identificata e associata ai soli principi di teurgia e filosofia, e che invece con lui acquisisce la dignità di professione e di disciplina scientifica, scevra da qualsiasi connotato magico.

Gli studi di Ippocrate danno origine a quella che sarà definita “medicina di osservazione e di esperienza”, che si basa sulla spiegazione logica di tutti i fenomeni fisiologici e patologici.

Gli studi di Ippocrate danno origine alla “medicina di osservazione e di esperienza”

Negli scritti del Corpus hippocraticum si trovano elencate, per la prima volta, le regole per raccogliere i “rimedi vegetali”, le norme per preparare i medicamenti, la loro classificazione in base all’effetto e le modalità di utilizzo. Come ricorda lo stesso Ippocrate: “Ogni guarigione ha la sua causa, sapere opportunamente usare i rimedi non è cosa da tutti”, dal De arte. E: “Quando il medico entra nell’ammalato deve già conoscere i singoli effetti dei medicamenti in base alle sue osservazioni e alle sue esperienze”, dal De decenti ornatu.

Il fondatore della medicina moderna intuisce come lo stesso farmaco possa avere effetti diversi sulle persone: “Lo stesso medicamento dovrebbe avere sempre la stessa azione, ma così non è poiché essa varia molto nei vari casi. I farmaci evacuanti ora purgano molto, ora poco, ora giovano, ora nuocciono, secondo i vari individui in cui sono adoperati”, dal De locis in homine.

O come lo stesso farmaco possa avere indicazioni terapeutiche differenti: “La mandragora che ad alte dosi produce l’insonnia, data a piccole dosi agli ansiosi, ai tristi, a coloro che soffrono di mania suicida, può guarire”, dal De locis in homine.

Galeno

Un’altra figura importante è quella di Galeno (Pergamo, 129 d.C. – Roma, 201 d.C. circa), considerato il più grande medico dell’antichità dopo Ippocrate.

Il principio di base della farmacoterapia, “Contraria contraris curantur”, locuzione latina che significa “i contrari vengono curati con i contrari”, è stato coniato da Galeno, e ancora oggi i medicinali preparati in farmacia portano il suo nome (galenici).

In seguito, Samuel Hahnemann, padre dell’omeopatia, lo utilizza quale fondamento della medicina convenzionale del XIX secolo, parlando di “allopatia” per distinguerla dal principio filosofico del “Similia similibus curantur, ossia “i simili si curano coi simili”, che ispira invece l’omeopatia.

I preparati galenici svolgono ancora oggi un ruolo chiave

I preparati galenici hanno rappresentato la maggior parte dei rimedi venduti in farmacia fino a tutto il XIX secolo, compresi i primi 30 anni del secolo XX.

Come vedremo più avanti, con lo sviluppo dell’industrializzazione, la produzione di farmaci è passata in mano alle grandi aziende, ma questo non ha impedito alle preparazioni galeniche di rivestire ancora oggi un importante ruolo. Ruolo che si è riscoperto anche durante la pandemia da Covid-19 in cui la galenica ha sopperito in alcuni casi a carenze di farmaci per curare i ricoverati di Covid-19.

Oggigiorno, tra i farmaci galenici si distinguono quelli officinali e quelli magistrali, da preparare sempre nel rispetto delle NBP, Norme di Buona Preparazione, nonché delle EUGMP, Norme Europee di buona fabbricazione.

È necessario fare una distinzione però fra i prodotti definiti farmaci, che dovranno essere realizzati utilizzando molecole API (Active pharmaceutical ingredients), sempre seguendo la normativa EUGMP, e quelli con destinazione cosmetica, alimentare, che non rientrano nella categoria farmaci e sono in libera vendita.

Dall’alchimia araba alla chimica medica di Paracelso

Tornando alla storia del farmaco, se il Medioevo rappresenta per l’Europa un periodo di buio, è invece l’epoca di maggior splendore per il modo arabo che sa raccogliere non solo l’eredità farmacologica greca e latina, ma anche quella indiana, assira ed ebrea.

In questo periodo, accanto a nuove sostanze vegetali, si introducono per la prima volta sostanze chimiche: da questa nuova cultura nasce l’alchimista, figura che da un lato permette di sviluppare conoscenze e dall’altro lavora per scoprire la Panacea universale, con I’intento di curare tutte le malattie, arrivando a prolungare in maniera indefinita la vita stessa.

Con la conquista da parte degli arabi di tutto il bacino del Mediterraneo, la medicina araba raggiunge il massimo del suo splendore, specialmente in Spagna, dove nascono grandi scuole a Siviglia, Granada e Salamanca.
In Italia si sviluppa nei monasteri una forma d’arte farmaceutica, arricchitasi attraverso la tecnica della distillazione imparata dal mondo arabo.

I medicamenti preparati nei monasteri traggono le basi proprio da questa tecnica, unita a quella della frantumazione, della triturazione, dell’infusione e della preparazione dei decotti.

All’inizio del XIII secolo nascono in Italia le prime università, istituti che segnano un distacco dal dogmatismo del tempo e iniziano ad essere enunciati principi medici più liberi e laici.

Con le prime università si definisce meglio la metodologia delle preparazioni medicinali

Sotto il re Federico II di Svevia sorge a Napoli la prima università, che ancora oggi porta il suo nome. Il re è promotore assoluto delle scienze, incoraggia il pensiero del tempo, dà spazio alle teorie arabe, stimolando gli studiosi a progredire nelle ricerche e nell’apprendimento in campo matematico, alchimistico e delle scienze naturali.

Durante il XIII e il XIV secolo si passa dalla “materia medica tossicologica” alla “tecnica farmaceutica”, con il preciso compito di definire la metodologia necessaria alle preparazioni delle varie formulazioni medicamentose.

In questo periodo alcuni studiosi fanno risalire la nascita della figura del farmacista – chiamato anche speziale, proprio dalle materie prime oggetto della sua pratica.

Questa figura, fino al 1100, era coincisa con quella del medico, visto che la sua opera spaziava in un arco di attività che comprendevano entrambe le professioni.

 

Durante i secoli XV e XVI si assiste ad un vero e proprio delirio alchimistico: principi, scienziati, curiosi e ciarlatani si dedicano a quest’arte, prodigandosi in ricerche in questo campo.

Figura chiave di questo periodo fu Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelsus o Paracelso (Einsiedeln, 1493 – Salisburgo, 1541): a lui si deve l’idea rivoluzionaria che le malattie sono causate da agenti esterni al corpo e non da squilibri degli umori.

Paracelso è contrario alla fitoterapia e si dedica alla scoperta di numerose sostanze ad azione terapeutica, divenendo il precursore della “chimica medica” basata sull’analisi dei minerali, precorritrice della moderna analisi chimica.

Sostiene che le piante medicinali sono “impure”, e che possono agire solo per una quinta essenza, o principio chimico attivo. Rifiuta le teorie di Ippocrate e Galeno e propone, al contrario di questi ultimi, di somministrare solo un prodotto unico, invece che una mistura di più medicamenti.

Paracelso è il precursore della “chimica medica” e si dedica all’isolamento del singolo principio attivo

L’isolamento del principio attivo era possibile, secondo Paracelso, con la distillazione o la concentrazione, effettuata attraverso diverse manipolazioni chimiche.

Lo scopo di questi sforzi era ottenere l’elisir di lunga vita.

Non c’è riuscito Paracelso e nessuno dopo di lui, anche se i farmaci hanno aiutato e aiutano tutt’oggi a vivere più a lungo. Forse l’elisir tanto ricercato alla fine era questo, un farmaco o farmaci che aiutassero a vivere meglio, e più a lungo. Non certo a renderci immortali.

L’opera di Paracelso rappresenta comunque un importante contributo al passaggio dall’alchimia alla moderna chimica farmaceutica. Il principio di Paracelso di somministrare un prodotto unico e il più puro possibile ha permesso di indentificare trattamenti come la cura della malaria, a partire dalla radice di china da cui si estrae il chinino.

Nel XIX secolo, la purificazione dell’oppio (da cui si produce la morfina) aiuta nel trattamento del dolore, ma anche della tosse, con farmaci a base di codeina (un derivato della morfina).

Oggi tutta l’industria farmaceutica è basata su questi sforzi di ricerca e purificazione delle sostanze.

La farmacologia come scienza

Con il XVIII secolo l’alchimia viene messa da parte e la materia inizia ad assumere le caratteristiche di vera e propria scienza.

Gli studiosi cominciano ad interessarsi in modo più specifico di principi attivi e di medicamenti. In questo periodo nasce la farmacologia sperimentale, che assume come base il principio metodologico della sperimentazione sistematica, sia in vitro, sia sugli organismi viventi.

Durante il XIX secolo si comprende in maniera più precisa il potere medicamentoso delle droghe vegetali, dei principi attivi che se ne possono ricavare, e si registra un importante sviluppo della fisiologia sperimentale e della chimica, ora, a tutti gli effetti, riconosciuta come scienza.

Nel corso del 1800 iniziano i primi studi per ottenere nuovi preparati da sintesi chimica

Il fondatore della farmacologia moderna è Oswald Schmiedeberg, farmacologo, chimico e farmacista tedesco (1838 – 1921), a cui si devono gli studi sull’approfondimento della conoscenza dei vari composti, ma anche al loro raggruppamento per reazione farmacologica analoga, dando origine alla prima classificazione scientifica dei farmaci.

Nel corso del XIX secolo iniziarono i primi studi rivolti ad ottenere, attraverso la sintesi chimica, nuove sostanze destinate a diverse applicazioni farmacologiche. Si tratta di sostanze create in laboratorio e non più ricavate dal mondo vegetale o minerale.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX nascono, soprattutto in Germania, i primi Istituti Scientifici autonomi, con la denominazione riferita all’attività all’inizio di “materia medica” e successivamente di “farmacologia”. Il rapido sviluppo della chimica mette a disposizione della farmacologia un numero crescente di molecole.

Il ventesimo secolo

All’inizio del XX secolo i farmaci potevano essere ottenuti sia da preparati di sintesi, sia da materie di origine vegetale, animale e minerale.

La scienza farmacologica prosegue, studiando gli effetti dei farmaci sulla fisiologia di un organismo vivente: dai processi metabolici, agli effetti su cuore, muscoli ad altri apparati.

Fino agli anni ’50, il numero delle preparazioni farmacologiche è molto limitato e di poco rilievo.

I farmaci si presentano in pillole e compresse, anche colorate, accompagnate da foglietti “bugiardi” (chiamati poi bugiardini), chiamati così perché più attenti ad esaltare le caratteristiche del farmaco, piuttosto che citare gli eventuali effetti collaterali (oggi si chiamano foglietti illustrativi, ancora bugiardini nel linguaggio comune, ma sono molto dettagliati, soprattutto sul fronte degli effetti collaterali).

Nel corso del XX secolo si assiste ad una crescita esponenziale di nuovi medicamenti e classi di farmaci. Sulfamidici, penicillina, insulina, vitamine, anticoagulanti vengono scoperti ed introdotti nella prima metà del secolo, mentre, in seguito alla Seconda guerra mondiale, arrivano farmaci dedicati all’ipertensione arteriosa, per le malattie metabolico-degenerative, antitumorali, nonché farmaci per i disturbi mentali gravi.

Senza dubbio, i farmaci messi a disposizione nel corso del XX secolo hanno contribuito a migliorare la qualità e l’aspettativa di vita, che fino ai primi anni del ‘900 si attestava attorno ai 50 anni.

Vaccini, chemioterapici e antibiotici sono i farmaci che hanno cambiato in primis la storia dell’uomo

“I medicinali che hanno cambiato in primis la storia dell’uomo – riprende Cantelli Forti– sono stati essenzialmente tre: i vaccini prima, i chemioterapici quali i sulfamidici e infine gli antibiotici. L’attuale grave rischio, come anche recentemente affermato dall’OMS, è il diffondersi della resistenza a tutti gli antibatterici a causa del loro cattivo e inappropriato uso, con conseguente perdita di efficacia e mancata risposta terapeutica. La ricerca clinica su nuovi antibiotici ha avuto una preoccupante flessione con l’inizio di questo secolo ed è bene ricordare che lo sviluppo di un nuovo farmaco richiede da 10 a 14 anni”.

L’arrivo delle biotecnologie e delle terapie geniche

Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo si sono verificati due eventi di portata rivoluzionaria, che hanno cambiato la base della ricerca farmacologica, aprendo la strada per future implementazioni scientifiche.

Si tratta dei farmaci realizzati mediante tecniche di ingegneria genetica, dette comunemente biotecnologie, e delle scoperte riguardanti il patrimonio genetico delle cellule.

Come ci ricorda AIFA, per biotecnologia si può intendere tutto ciò che implica l’utilizzo di sistemi viventi o di ingegneria biologica molecolare per la creazione e la realizzazione di prodotti biologici a fini terapeutici o diagnostici: proteine ricombinanti (ormoni, interferoni, interleuchine, fattori di crescita, enzimi e fattori del sangue), anticorpi monoclonali, peptidi (ricombinanti e sintetici ingegnerizzati), molecole ingegnerizzate (come proteine di fusione, frammenti mAb e derivati, liposomi, e polimeri), terapie cellulari e tissutali, terapie genetiche (geni e frammenti antisenso e inibitori dell’RNA) e vaccini (ricombinanti e ingegnerizzati a livello molecolare oppure a base di RNA messaggero, come quelli introdotti per la Covid-19).

Dall’autorizzazione della prima insulina ricombinante nel 1982 un numero considerevole di prodotti biofarmaceutici è stato autorizzato per il trattamento di una grande varietà di patologie, grazie agli straordinari progressi registrati negli ultimi 30 anni nel settore delle biotecnologie.

L’autorizzazione della prima insulina ricombinante risale al 1982

Nei primi anni del secolo XXI, il completamento del sequenziamento del DNA, iniziato nel secolo precedente, innesca ulteriori ricerche in grado di stabilire le basi per lo sviluppo degli studi sul patrimonio genetico (genoma) di ciascun individuo, segnando anche il progresso nella biologia molecolare.

L’esito di questi progressi porterà ad uno sviluppo progressivo della farmacogenomica di pari passo con la farmacogenetica, ossia quelle scienze che, sulla base degli studi sul patrimonio genetico, si propongono di identificare la risposta ai farmaci legati ai fattori genetici. Nello specifico, la farmacogenetica studia le differenze genetiche che influenzano la variabilità della risposta farmacologica tra individui; la farmacogenomica identifica le differenze genetiche utili per lo studio di nuovi farmaci e il loro sviluppo.

Oggi più che mai è necessario diffondere una maggiore cultura sulla farmacologia e sull’uso dei farmaci

“Dobbiamo tener presente che i medicinali del futuro si svilupperanno presumibilmente in due direzioni – ha ripreso l’ex presidente della SIF – la prima verso la medicina personalizzata, basata su biotecnologie o terapie geniche, che sarà focalizzata soprattutto sulle malattie rare ed oncologiche, mentre la seconda verso le malattie ‘comuni’, che riguardano la massa, e che continueranno a esistere. Ed è qui che si sta abbassando la guardia: i medici di famiglia spesso prescrivono con troppa facilità antibiotici o altre cure senza fare una corretta diagnosi o assecondando la ‘moda’ voluta dal paziente. Per contro, molte persone si curano da sole, senza nemmeno consultare il medico, e usano antibiotici quando non ce n’è bisogno, per fare un esempio. Ecco perché oggi più che mai è necessario diffondere una maggiore cultura e sensibilizzazione sulla farmacologia e sull’uso dei farmaci, tra la popolazione e, soprattutto, tra i medici. Da non trascurare che un comportamento appropriato e più virtuoso favorirebbe il contenimento della spesa sanitaria con possibilità di maggiori risorse a disposizione di malattie gravi e rare”.

L’ultima frontiera: le terapie digitali

Qualche anno fa sono state introdotte le terapie digitali, o DTx dal termine inglese Digital Therapeutics, vale a dire interventi terapeutici basati su software in grado di integrare o sostituire i tradizionali schemi terapeutici in uso. In Italia ancora non sono arrivate, ma sono già presenti negli Usa e in alcuni paesi europei come la Germania.

Le DTx non curano come i farmaci “tradizionali”, ma sono concepite con lo scopo di modificare la condotta di un paziente al fine di migliorare gli esiti della sua malattia.

Nel caso di una terapia digitale il principio attivo, se così vogliamo chiamarlo, è un algoritmo: una app per smartphone, un videogioco, un sensore che regola un inalatore di farmaci per il respiro.

Le terapie digitali si focalizzano sulla condotta del paziente, per migliorare gli esiti della sua malattia

La scelta della tipologia di somministrazione più appropriata dipende quindi anche alle caratteristiche del paziente (adulto, bambino, anziano) al quale è destinata, nonché dall’indicazione terapeutica.

Si stanno rivelando particolarmente utili nelle patologie rientranti nella sfera comportamentale e psicologica, nelle malattie degenerative, nei problemi respiratori di particolare gravità come la BPCO (Broncopneumopatia cronica ostruttiva) e asma, nonché insonnia, ipertensione, ADHA (dall’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ossia Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività), ansia, depressione, autismo, patologie cardio-circolatorie.

 

In un futuro che è già iniziato, la scienza sarà in grado di identificare “il farmaco” o meglio la farmaco-terapia migliore (chimica, biomolecolare, genetica) e il dosaggio personalizzato, offrendo un trattamento farmacologico sempre più mirato. Ma non bisogna dimenticarsi delle patologie croniche, delle malattie “banali” quale l’influenza e di tutte quelle patologie non gravi ma che, se curate male, provocano resistenza ai farmaci e, sul lungo periodo, possono sfociare in malattie molto più serie.

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Angelica Giambelluca
Giornalista professionista in ambito medico