Nel nostro Paese, secondo i dati della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) circa 1 milione di persone, ovvero l’1,5% della popolazione, è affetto da scompenso cardiaco. La prevalenza è di circa il 2% e i nuovi casi ogni anno sono circa 80.000. Una condizione clinica che è più frequente con l’avanzare dell’età: ne è colpito circa il 10% delle persone con più di 65 anni e il 9,1% delle persone ultraottantenni. È la prima causa di ospedalizzazione negli over 65 e si associa a una mortalità ospedaliera del 5-7%.
Come riportato in recente studio condotto sul territorio italiano, si tratta di un’emergenza sanitaria e di una sfida per il sistema salute, non solo per l’impegno di risorse, ma anche per come questa condizione clinica si riflette sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette, caratterizzata dalla necessità di gestire sintomi spesso refrattari, terapie complesse e molteplici controlli medici ed esami diagnostici.
In Italia lo scompenso cardiaco colpisce circa 1 milione di persone
Una gestione efficace dello scompenso cardiaco richiede un approccio multidimensionale: se da un lato l’assistenza sanitaria garantita dai professionisti è imprescindibile, dall’altro il ruolo dei caregiver rappresenta una risorsa preziosa. Il contributo di questi ultimi, in particolare, come emerge dall’analisi della relazione tra caregiver e assistito, influenza l’aderenza alle cure e il benessere complessivo del paziente, tanto da sottolineare come la gestione dello scompenso cardiaco sia da considerare un fenomeno diadico.

Queste considerazioni aprono a un cambio di visione: “Caregiver: non solo figure di supporto ma co-protagonisti della cura”, sottolinea Greta Ghizzardi, Tutor universitario, Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Milano – Direzione Aziendale delle Professioni Sanitarie e Sociosanitarie, Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Lodi, intervistata da TrendSanità.
Essere co-protagonisti con continuità in un sistema strutturato, in cui a prevalere sono i professionisti, la tecnologia e i tecnicismi, e spesso anche la burocrazia, non è semplice. Qual è il ruolo che deve rivestire il caregiver e a partire da quale motivazione?
«Per i professionisti, è ormai chiaro che il caregiver non è un aiuto “occasionale”, ma parte integrante della cura. Nello scompenso cardiaco, ogni gesto quotidiano, dal controllo del peso alla gestione dei sintomi, passa attraverso la relazione tra chi vive la malattia e chi la accompagna.
Il caregiver è parte integrante della cura
Nel contesto di una ricerca qualitativa condotta di recente in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata (in fase di pubblicazione) a partire da uno studio multicentrico più ampio, abbiamo intervistato venti diadi, ossia venti persone con scompenso cardiaco e i loro caregiver. I caregiver ci hanno raccontato che la loro motivazione principale nasce dal bisogno di fare la differenza: sentirsi utili, sostenere il proprio caro, partecipare al percorso di cura.
È una spinta affettiva, certo, ma anche identitaria: molti caregiver ci hanno riferito di aver trovato in questo ruolo un nuovo significato personale e familiare, un modo per trasformare la fragilità in partecipazione e condivisione e per ridefinire il proprio posto nel contesto della relazione di cura. Tuttavia, questa motivazione da sola non basta: deve essere sostenuta da conoscenze adeguate, da momenti di informazione (e formazione) dedicati e da un chiaro riconoscimento del proprio ruolo di caregiver».
Di cosa ha bisogno il caregiver per sentirsi realmente coinvolto?
«Il caregiver ha bisogno di essere riconosciuto come parte attiva del team di cura. Questo significa ricevere informazioni chiare, ma anche essere ascoltato: il coinvolgimento passa tanto dall’ascolto dei suoi bisogni quanto dalla trasmissione di conoscenze.
Gli infermieri spesso sono il punto di riferimento dei caregiver
I caregiver affermano spesso di aver bisogno di sapere cosa fare e di sentire che non sono soli, di poter contare su professionisti (o, ancora meglio, su un professionista di fiducia) a cui rivolgersi in caso di dubbi e preoccupazioni riferiti alla malattia; serve una rete che non li lasci isolati dopo la dimissione. Gli infermieri, per la loro vicinanza e continuità, spesso rappresentano il punto di riferimento più stabile e ricercato: spiegano, rassicurano, traducono la complessità clinica in indicazioni pratiche e gesti quotidiani».
Quale relazione con i professionisti e quali modelli di cura per essere co-protagonista?
«Il modello a cui tendere è quello basato sulla fiducia, sulla continuità e sulla condivisione di un piano terapeutico. La nostra esperienza con il colloquio motivazionale a distanza lo dimostra: anche una videochiamata può diventare uno spazio autentico di confronto se guidata con empatia e competenza.
Anche la videochiamata tra infermiere e caregiver può essere di supporto
I caregiver hanno espresso che “sentirsi visti e ascoltati” a distanza è stato come avere l’infermiere accanto. È anche così che l’infermieristica mostra la sua forza: con un approccio di relazione personalizzato, capace di integrare tecnologia e prossimità, per garantire un supporto, appunto, a tutti coloro che ne hanno bisogno».
Quali sono le sfide del percorso di cura e le criticità che il caregiver deve affrontare nel quotidiano?
«La gestione dello scompenso cardiaco non è semplice per i caregiver. La letteratura è ricca di studi che trattano del “burden” del caregiver, ossia del “peso” o “carico di cura” che queste persone portano spesso, anche nel quotidiano. I caregiver riportano la fatica, la paura di sbagliare, la difficoltà di conciliare lavoro, famiglia e assistenza. Molti sentono la mancanza di un supporto continuativo: in certe realtà, dopo la dimissione, il sistema tende ancora a “scomparire”. La letteratura mostra chiaramente che il burden incide sul benessere fisico e psicologico del caregiver.
Il burden di cura incide sul benessere fisico e psicologico del caregiver
Tuttavia, possiamo offrire una soluzione per prevenire e affrontare questa problematica: interventi precoci, personalizzati e condotti da infermieri opportunamente formati possono ridurre stress, isolamento e burden. Offrire interventi tempestivi e disegnati sulla condizione clinica e sociale di chi abbiamo di fronte (o al di là dello schermo) è fondamentale per ridurre esiti negativi, come è peraltro emerso in modo consistente anche nel contesto del nostro studio».
Il caregiver deve essere coinvolto anche nella ricerca clinica?
«Decisamente sì, e non solo come fonte di dati, ma come parte attiva del processo di ricerca, fin dalla pianificazione dello studio, che può prendere forma per rispondere a quesiti posti direttamente da loro. La letteratura internazionale lo conferma: includere caregiver e pazienti come partner di ricerca o co-designer degli interventi porta a soluzioni più efficaci e più vicine ai bisogni reali. È un atto di responsabilità scientifica ma anche etica: solo valorizzando l’esperienza di chi vive la malattia ogni giorno possiamo progettare interventi che funzionino davvero, nella vita reale.
È molto utile coinvolgere i caregiver sin dal processo di ricerca
Nello studio che abbiamo condotto, la voce dei caregiver ha permesso di comprendere dimensioni che le statistiche non raccontano: la paura, la resilienza, la solitudine, ma anche la speranza e la capacità di rassicurare, incoraggiare e spronare la persona che assistono. Coinvolgerli significa costruire una ricerca più realistica e utile, che parli davvero delle persone; saperli tenere ingaggiati negli studi, poi, ci restituisce un’impagabile rappresentazione di come la relazione diadica (o triadica, se consideriamo anche l’infermiere), nonché gli esiti di salute possano evolvere nel tempo».







