Il 4 febbraio si celebra il World Cancer Day, un’occasione per riflettere sulle sfide globali dell’oncologia, tra cui l’accesso alle cure e l’integrazione delle cure palliative. In questo contesto, il modello delle cure simultanee è sempre più al centro del dibattito. Per alcuni, rappresenta un bisogno essenziale per garantire la qualità della vita dei pazienti; per altri, un’opzione applicabile solo in contesti organizzativi favorevoli.
Il tema è stato anche al centro del XXVI Congresso Nazionale AIOM del 2024, dove gli oncologi italiani hanno discusso le difficoltà nell’accesso alle cure palliative, la carenza di palliativisti e le complessità organizzative. Un problema globale, come evidenzia Jennifer Temel sul New England Journal of Medicine: le cure palliative non solo migliorano la qualità della vita, ma possono anche aumentare la sopravvivenza dei pazienti oncologici. Tuttavia, la domanda supera di gran lunga la disponibilità della forza lavoro specializzata in cure palliative in diverse parti del mondo. Negli Stati Uniti, ad esempio, si contano tra i 1.700 e i 3.300 specialisti certificati in cure palliative a tempo pieno, la maggior parte dei quali non specificamente dedicata all’oncologia.
Anche in Italia la carenza di palliativisti frena l’adozione del modello multidisciplinare. «Su 149 posti in specializzazione, ci sono state solo 39 domande nel 2024» ci dice Giampiero Porzio dell’Associazione Tumori Toscana – Cure Domiciliari Oncologiche e membro del Working Group “Cure Simultanee e Qualità della Vita” AIOM, intervistato da TrendSanità. La sua proposta è pragmatica: un modello a due livelli, con un approccio di base gestito dall’oncologo per tutti i pazienti e un livello avanzato affidato ai palliativisti per i casi più complessi. Fondamentale, dunque, formare gli oncologi affinché possano offrire cure palliative primarie efficaci e identificare tempestivamente chi necessita di cure avanzate.
Perché ci sono così pochi medici palliativisti?
«Le motivazioni sono diverse e, a dirla tutta, nessuno le ha mai analizzate in modo scientifico. Innanzitutto, è una specialità che non garantisce grandi prospettive di carriera. Non è un settore considerato prestigioso e questo ha il suo peso. È l’unica specialità medica che non nasce in ambiente accademico: le cure palliative si sono sviluppate nelle charity inglesi, non nelle università o in altri centri di ricerca di prestigio. Questo fa sì che chi ha ambizioni accademiche o di avanzamento professionale non consideri questa strada».
Quindi, l’assenza di una base accademica incide?
«Esattamente. Non c’è una progressione accademica chiara per chi ambisce a diventare professore universitario o ricercatore. E poi, diciamolo, le cure palliative non sono “cool”. Chirurghi e cardiologi sono sempre sotto i riflettori, protagonisti di serie TV o film, i palliativisti no. Inoltre è chiusa la strada dell’attività libero-professionale e sono scarsissime le possibilità di carriera, tutti aspetti rilevanti soprattutto per i giovani medici, che cercano un percorso che sia non solo gratificante, ma anche riconosciuto socialmente».
La carenza di palliativisti è un problema solo italiano?
«No, assolutamente. È un problema globale. Cambiare il nostro sistema non risolverebbe la questione, perché la carenza di palliativisti è presente ovunque. Riguarda l’Italia, certo, ma anche gli Stati Uniti e altri Paesi sviluppati. Si tratta di una professione che fatica a trovare spazio, anche per motivi economici. Le strutture spesso preferiscono investire in figure che portano più profitti o che sono più visibili agli occhi del pubblico e dei media».
Quale potrebbe essere il ruolo della telemedicina nelle cure palliative?
«La telemedicina potrebbe essere uno strumento valido, ma è ancora poco diffusa. In uno studio su 22 centri di terzo livello negli Stati Uniti, su 3.800 pazienti eleggibili solo 1.250 sono stati inseriti nello studio. Questo dimostra che la telemedicina non è per tutti. Va usata con cautela e in modo mirato. Non possiamo pensare che sia una soluzione universale. Serve un approccio equilibrato, che tenga conto delle necessità specifiche dei pazienti e delle loro condizioni cliniche».
In che modo potrebbe essere usata in Italia?
«Noi, a Firenze, la stiamo utilizzando in modalità ibrida: alterniamo visite in telemedicina a incontri di persona. Questo ci permette di mantenere il rapporto umano, fondamentale per i pazienti, senza togliere flessibilità al sistema. Un esempio pratico è il seguente: iniziamo con visite in presenza per valutare il paziente, poi, se le condizioni lo permettono, passiamo a incontri virtuali. Tuttavia, restiamo sempre pronti a tornare al contatto diretto se la situazione clinica del paziente peggiora. È necessario concentrarsi su tre fattori: tempo, semplicità e target ben definito, sono questi i pilastri per un approccio efficace.
Il tempo inteso come inizio precoce del trattamento. Per curare la maggior parte dei sintomi basta conoscere pochi farmaci e puntare sulla semplicità di un approccio mirato, che miri a risolvere il sintomo “primario”, eliminando il quale spesso si riesce ad alleviare anche quelli secondari.
Il momento giusto per integrare le cure palliative è alla diagnosi di malattia avanzata, non alla fine della vita
Quali sono le difficoltà maggiori nell’applicazione della telemedicina?
«Mancano cultura e formazione. Non servono strumenti sofisticati: persino una chiamata su WhatsApp può essere utile. Il problema è che spesso si pensa che la telemedicina sia la panacea di tutti i mali, ma non è così. Serve precisione, flessibilità e la capacità di tornare alla visita in presenza quando necessario. Inoltre, bisogna considerare che non tutti i pazienti sono pronti ad accettare un approccio digitale. Alcuni hanno bisogno del contatto umano per sentirsi realmente assistiti».
E quali sono le possibili soluzioni per affrontare la carenza di palliativisti?
«La soluzione sta nella diffusione della cultura delle cure palliative. Bisogna formare quante più persone possibili, dai medici di base agli infermieri, con competenze di base. In Canada, ad esempio, hanno formato 28.000 operatori sanitari con programmi semplici ed efficaci, con un impatto significativo sull’accessibilità alle cure palliative. Si tratta di un progetto di formazione ambizioso e innovativo chiamato Pallium Canada: Learning Essential Approaches to Palliative Care (LEAP). L’obiettivo era potenziare la capacità a livello nazionale di fornire cure palliative di base, rispondendo così alla crescente domanda di assistenza per i pazienti con malattie avanzate. Si è concentrato su aspetti basilari delle cure palliative: trattare i sintomi più comuni, comunicare efficacemente con i pazienti e supportarli nel delicato percorso delle cure di fine vita. È un modello semplice, pratico e replicabile su larga scala, che consente di diffondere le conoscenze essenziali anche in contesti con risorse limitate.
Questo è il futuro: diffondere conoscenze essenziali e creare una rete di supporto
Anche, l’esperienza della Florida può insegnarci molto: lì stanno formando infermieri per gestire le cure palliative in contesti con alta densità di pazienti anziani e complessi. Ciò dimostra che con soluzioni pratiche si possono superare anche le sfide più grandi.
Questo è il futuro: diffondere conoscenze essenziali e creare una rete di supporto. Non possiamo permetterci di avere solo pochi specialisti in grado di gestire i casi complessi. Dobbiamo formare una “prima linea” di operatori in grado di affrontare le situazioni più comuni».
Ritiene che i nuovi modelli di cura siano replicabili ovunque?
«No, “one size doesn’t fit all”. Ogni territorio ha le sue peculiarità. Ad esempio, ciò che funziona a Firenze potrebbe non funzionare a L’Aquila. Anche all’interno dello stesso reparto oncologico, un modello potrebbe essere valido per il tumore al polmone ma inadatto per quello al pancreas. Bisogna avere modelli flessibili e adattabili alle diverse realtà, tenendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze specifiche».
In conclusione, quale dovrebbe essere l’approccio futuro alle cure palliative?
«Bisogna investire sulla formazione e sulla diffusione della cultura delle cure palliative. Solo così si potranno affrontare le crescenti necessità. Non servono strutture imponenti o modelli complessi, ma una rete capillare di operatori sanitari formati sulle basi delle cure palliative. Il paziente deve essere al centro, sempre.
Un approccio pragmatico e umano è fondamentale per garantire la qualità della vita, soprattutto nei momenti più difficili della malattia. Il futuro delle cure palliative quindi non può prescindere dall’integrazione con l’oncologia, la formazione e la telemedicina per gestire la carenza di specialisti. Così come è necessario semplificare i protocolli terapeutici e identificare farmaci essenziali».