Gli IRCCS sono di fronte ad una trasformazione guidata dall’innovazione tecnologica. Lo sforzo di digitalizzazione e innovazione, missione 1 del PNRR, assume una valenza particolare in sanità e può essere considerato uno dei fattori strategici per il settore. Trasformazione digitale e valorizzazione dei Big Data sono due obiettivi irrinunciabili del PNRR e devono trovare adeguata implementazione in fase attuativa: servono investimenti in competenze, tecnologie e strumenti di change management.
Basti pensare che il settore sanitario è la prima fonte per la generazione di dati a livello mondiale, generando il 30% del volume globale, con un tasso di crescita previsto del 36% entro il 2025. Digitalizzazione, intelligenza artificiale e internazionalizzazione sono quindi le vere sfide e anche opportunità imminenti che gli IRCCS non possono lasciarsi sfuggire.
Carlo Nicora, già Direttore Generale della Fondazione Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e Vicepresidente di FIASO (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere), ci spiega queste complessità.

Partiamo dalla “logica dei silos” all’interno degli IRCCS. Quali strategie per migliorare e condividere i dati in ambito della ricerca?
«La soluzione è chiara: costruire un sistema di rete. Gli IRCCS devono sviluppare infrastrutture che permettano la condivisione dei dati, cosa possibile nel rispetto della normativa, in maniera anonima e sintetica. Per gli IRCCS è necessario che la trasformazione digitale non sia una “semplice” informatizzazione dei processi, ma un reale ripensamento di come le attività di ricerca e cura vengono fruiti da cittadini e pazienti ed erogati dai professionisti sanitari. Si tratta quindi di partire dai bisogni dei pazienti, dei professionisti e dei ricercatori, investendo tempo e competenze nella riprogettazione dei modelli erogativi di ricerca e soprattutto, promuovendo una maggiore diffusione delle competenze digitali tra gli operatori del SSN.
Le capacità predittive abilitate da una sanità data-driven permettono di avere una più efficace ed efficiente allocazione delle risorse, con un controllo delle tecnologie utilizzate e delle terapie messe in atto, nonché una maggiore qualità ed efficacia dei servizi erogati. Questo, per le strutture sanitarie e ospedaliere, significa potersi basare sulla previsione dei possibili ricoveri futuri per effettuare una più precisa programmazione, riuscendo così a predisporre persone e turni per occuparsi in modo adeguato dei pazienti. L’aumento delle capacità decisionali che la sanità digitale consente è uno dei fattori che più influisce sulla possibilità di incrementare la qualità e l’efficacia dell’assistenza sanitaria.
Per gli IRCCS, la trasformazione digitale deve ripensare profondamente l’esperienza di cura e ricerca, non solo informatizzare i processi
Una maggior diffusione di strumenti digitali comporterà per gli IRCCS la necessità di rimanere al passo per quanto attiene la Cartella Clinica Elettronica (CCE), il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), il Centro Unico di Prenotazione (CUP) come Hub di gestione e monitoraggio, la Telemedicina, l’Internet of Medical Thing (IoMT) usando dispositivi che permettono il monitoraggio della salute da remoto e l’uso di procedure digitali di case management consentendo di attivare la home delivery del farmaco e il modello della Connected Care alla base di una sanità digitale interconnessa sia a livello regionale sia nazionale, che pone l’obiettivo di collegare il paziente con il personale sanitario coinvolto nell’intero percorso di cura.
La diffusione delle soluzioni digitali consentirà sempre più di generare una grande quantità di dati. La loro valorizzazione rappresenta la sfida principale del nostro sistema sanitario per i prossimi anni e deve essere giocata sia a livello di programmazione del SSN che a livello di singola azienda/istituto per migliorare la cura al paziente e renderla il più possibile personalizzata e per ampliare la capacità di ricerca. Per farlo devono essere affrontati e risolti alcuni aspetti, sul tavolo ormai da tempo, che non garantiscono l’interoperabilità dei sistemi e rendono difficile l’integrazione dei dati e loro valorizzazione: serve definire standard di interoperabilità per integrare dati provenienti da fonti diversificate; è necessario riuscire ad adottare anagrafiche e codifiche comuni in tutto il Paese; devono essere diffusi protocolli che garantiscano la qualità del dato per intercettare alla fonte eventuali errori ed è fondamentale ridurre il tempo che intercorre tra la generazione del dato e la sua trasmissione».
Questo approccio di “sistema di rete” è già in fase di implementazione?
«In parte sì. Gli Istituti oncologici stanno cercando di costruire una rete oncologica, mentre gli Istituti cardiologici e neurologici sono già inseriti in reti europee. Un esempio interessante è quello dei tumori rari: dato il loro scarso numero, gli Istituti stanno costruendo sistemi regionali e nazionali che prevedono la circolazione dei dati. I dati sui sarcomi, per esempio, raccolti all’Istituto Nazionale dei Tumori, possono essere messi a disposizione di strutture italiane o estere per l’attività di ricerca».
Dati derivati da attività clinica creati da un finanziamento pubblico: ci illustra meglio questo concetto?
«È un punto fondamentale. Questi dati sono stati creati grazie a un finanziamento pubblico: il paziente viene curato in un Istituto pubblico grazie al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e regionale. Una volta che il paziente torna a casa, nell’istituto rimangono i suoi dati, generati con risorse pubbliche. Perché questi dati, con tutte le cautele della privacy, non possono essere messi nel circuito della ricerca? Ciò aumenterebbe notevolmente le performance dei ricercatori».
Quindi i dati sono da considerare un “bene comune”?
«Esattamente. Una volta anonimizzato, il dato è un bene comune, e quel dato si è realizzato con un finanziamento pubblico. Se qualche struttura privata o del settore farmaceutico è interessata a questi dati, possiamo riconoscere il dovuto per il tempo e il lavoro impiegati per costruirli. Ma rimangono dati pubblici, derivanti da un’attività finanziata dal pubblico per curare i nostri pazienti».
C’è anche un vantaggio qualitativo in questo approccio, giusto?
«Le aziende farmaceutiche avrebbero la garanzia che quel dato è di qualità. Se un’azienda preferisce, potrà comprare dati dall’Istituto dei Tumori, dal Gemelli, dal Bambin Gesù di Roma o dal Cardarelli di Napoli invece che da Paesi dove la qualità potrebbe essere incerta, è perché sa che sta accedendo a dati affidabili, generati in un sistema controllato».
Una volta anonimizzato, il dato è un bene comune
Passiamo al tema dell’intelligenza artificiale. Molti modelli di AI, specialmente quelli basati sull’apprendimento profondo, sono considerati “scatole nere”, ovvero difficili da interpretare. Come conciliare questo limite con la necessità di trasparenza richiesta in ambito medico?
«È una domanda complessa e tecnica. Come manager sanitario, devo preoccuparmi quando introduco uno strumento di AI che aumenta la capacità di diagnosi, cura o previsione. Se lo strumento si è costruito sui dati che io ho inserito o su dati controllati derivati dalla letteratura, sono più tranquillo. Ma quando lo strumento evolve autonomamente, chi lo sviluppa deve definire i livelli di cautela e controllo necessari. L’intelligenza artificiale rappresenta una svolta importante, un vero e proprio salto generazionale con il quale non solo i ricercatori ed i medici, ma anche gli enti di ricerca devono convivere. L’integrazione dell’IA nei flussi di lavoro clinici esistenti, tuttavia può essere complessa e per supportarne l’implementazione su larga scala si rende necessaria un’infrastruttura tecnica robusta ed una formazione adeguata per i medici e ricercatori».
Può fare un esempio di utilizzo dell’AI nell’ambito della ricerca?
«Se sviluppo un software di ricerca in cui i ricercatori inseriscono linee guida e protocolli basati su conoscenze consolidate, so che quella macchina sarà più performante di un singolo medico grazie alla sua potenza di calcolo. Ma non va oltre ciò che le abbiamo insegnato. Diverso è il caso dell’AI generativa, con capacità di autoapprendimento. Su questo tema la Comunità Europea sta ponendo grande attenzione, soprattutto nell’ambito della salute con l’AI Act».
Un software basato su conoscenze consolidate è potente, ma limitato a ciò che gli insegniamo. Diverso è il caso della AI generativa
Parliamo di internazionalizzazione. Come possono muoversi gli IRCCS pubblici con la stessa agilità e capacità di competere degli IRCCS privati?
«È un auspicio che vorrei esprimere in positivo. I grandi Istituti pubblici hanno le potenzialità per essere competitivi a livello internazionale, anche se non sempre le sfruttano pienamente. Gli IRCCS rappresentano l’eccellenza della sanità italiana, non sono semplici ospedali, ma centri dove la ricerca scientifica si traduce direttamente in cure innovative per i pazienti. Uniscono prestazioni di alta specialità con ricerca clinica, traslazionale e biomedica all’avanguardia».
Può farci un esempio concreto di cosa significhi questa eccellenza in numeri?
«Prendiamo l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Nel 2023 ha attivato 141 progetti di ricerca, di cui 31 europei, pubblicato 835 studi scientifici, più di due al giorno, e gestito 764 studi clinici attivi. È significativo che solo il 15% dei finanziamenti provenga da fondi pubblici, mentre il resto arrivi da bandi internazionali vinti, donazioni private e 5xmille. Un ente pubblico che opera con l’efficienza di un privato».
Reti nazionali e internazionali per l’eccellenza anche nella cura…
«Chi fa ricerca ha già dentro di sé questa impostazione internazionale, altrimenti non pubblicherebbe su riviste internazionali o non parteciperebbe a congressi. La sfida è trasferire questo approccio metodologico anche nella cura. L’unica possibilità è costruire reti di collaborazione regionali, nazionali e internazionali. L’Istituto Nazionale dei Tumori, ad esempio, è inserito in una rete di otto grandi istituti europei. Oggi la capacità di curare i pazienti con prestazioni di ricovero e cura di alta specialità, fare ricerca clinica, traslazionale, biomedica e organizzativa ed essere protagonisti nell’attività di ricerca scientifica internazionale obbliga a lavorare in rete, che è anche tra gli obiettivi principali della riforma degli IRCCS. La nuova legge permette di includere nelle reti anche altri enti del SSN, come l’Università. Si tratta di una possibilità che prima non era declinata a livello legislativo con il vantaggio che essere aggregati in una rete permette di partecipare a programmi di ricerca a lungo termine con un assetto e una composizione dei partecipanti stabile, superando la collaborazione a tempo dettata da finanziamenti ad hoc, che quando si esauriscono portano spesso alla fine della collaborazione stessa. Inoltre, ha definito in maniera forte il ruolo delle reti di patologie, con la condivisione non solo di competenze, ma anche di attrezzature, con la finalità di realizzare laboratori virtuali distribuiti sul territorio nazionale che cercano di operare in modo integrato, con la necessità di un approccio in rete geografica».
La nuova legge permette di includere nelle reti anche altri enti del SSN, come l’Università
Questo potrebbe anche contribuire a ridurre le disuguaglianze nell’accesso alle cure?
«Certamente. Le differenze nell’accesso ai farmaci innovativi tra le regioni in Italia sono eclatanti, così come tra i diversi Stati europei. Lo Stato nazionale deve cercare di normalizzare le disparità tra le sue regioni, e l’Unione Europea dovrebbe fare lo stesso con i suoi Stati membri, sebbene ci siano differenze nelle politiche del farmaco nazionali che rendono questo processo complesso».
In conclusione, quali sono le prospettive future per gli IRCCS italiani?
«Il sistema degli IRCCS sta diventando un polo di attrazione inevitabile per chi vuole studiare, ricercare e guarire. La concentrazione di risorse, con logiche di rete e competizione, deve consentire ulteriormente di alimentare la ricerca e di creare un sistema tra tutti i centri che si sono guadagnati un ruolo di primo piano in Italia e nel mondo. Per molti è una sorpresa che il nostro Paese, quasi senza volerlo e senza neppure essersene accorto, con la rete degli IRCCS si è dotato di un sistema combinato di ricerca e cura unico al mondo. Una eccellenza che deve battersi ogni giorno con mille problemi di strutture, burocrazia e soprattutto di finanziamenti. Ma l’esempio di tanti IRCCS pubblici e privati è lì a dimostrare che tutto è possibile, cioè anche battere tumori, malattie neurodegenerative, cardiologiche, malattie rare con mezzi di gran lunga inferiori a centri scientifici di altri Paesi, in una lotta ancora lontana dall’essere vinta ma che ogni anno in Italia fa registrare qualche importante successo in più».