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Lotta al fumo: oltre 6 miliardi di persone protette, ma l’Italia è ancora indietro

C’è un dato che colpisce: oggi più di sei miliardi di persone, tre quarti della popolazione mondiale, vivono in Paesi che hanno adottato almeno una misura efficace per ridurre il consumo di tabacco. Lo rivela il nuovo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), presentato a Dublino nel corso della Conferenza mondiale sul Controllo del Tabacco.

Il documento traccia un bilancio a diciotto anni dall’introduzione del pacchetto di interventi noto come MPOWER, l’insieme di sei strategie che vanno dal divieto di pubblicità all’aumento delle tasse sulle sigarette, passando per le campagne shock sui pacchetti e le aree pubbliche libere dal fumo.

Un approccio che, secondo l’Oms, sta dando i suoi frutti. Nel 2007, solo un miliardo di persone nel mondo era protetto da almeno una di queste misure. Oggi quel numero si è moltiplicato per sei. Eppure, la guerra contro il tabacco è tutt’altro che vinta.

Cos’è il pacchetto MPOWER

Lanciato nel 2007, il pacchetto MPOWER identifica sei azioni fondamentali per combattere il tabagismo:

  • Monitoraggio del consumo di tabacco e delle politiche di prevenzione
  • Protezione dal fumo passivo
  • Offerta di aiuto per smettere di fumare
  • Warning: avvertenze forti su pacchetti e campagne informative
  • Enforcement dei divieti su pubblicità, promozioni e sponsorizzazioni
  • Raise: aumento delle tasse sui prodotti del tabacco

Secondo l’OMS, è scientificamente provato che queste misure salvano vite e riducono i costi sanitari.

Dove il mondo accelera

In quasi 110 Paesi, i pacchetti di sigarette mostrano oggi immagini e messaggi sanitari forti e chiari sui rischi del fumo, un salto enorme rispetto ai soli 9 Stati che lo facevano nel 2007. Inoltre, in 25 Paesi è già obbligatorio il cosiddetto “plain packaging”, confezioni neutre senza colori, loghi o elementi grafici in grado di rendere il prodotto più accattivante.

Sul fronte degli spazi pubblici, sono 79 i Paesi che hanno introdotto leggi che vietano completamente il fumo in luoghi chiusi come bar, ristoranti e uffici. Solo negli ultimi tre anni si sono unite a questo gruppo anche nazioni come l’Indonesia e la Slovenia.

E l’Italia?

L’Italia ha fatto qualche passo avanti nel corso degli anni, ma resta lontana dal gruppo di testa. I dati parlano chiaro: solo quattro Paesi – Brasile, Mauritius, Paesi Bassi e Turchia – hanno implementato tutte e sei le misure del pacchetto MPOWER al massimo livello raccomandato dall’OMS. Altri sette, tra cui Irlanda, Spagna e Slovenia, sono a un soffio dal traguardo. Ma l’Italia non è tra questi.

Tradotto, nel nostro Paese ci sono ancora margini di miglioramento perché, si legge nella scheda dedicata al Belpaese, dal 2014 a oggi non si rilevano cambiamenti significativi in termini di minor accessibilità delle sigarette.

In particolare, secondo il report, tre aree critiche emergono a livello globale e plausibilmente riguardano anche l’Italia:

  • Solo il 33% della popolazione mondiale ha accesso a servizi sanitari gratuiti o a basso costo per smettere di fumare. L’Italia offre alcuni servizi, ma non è chiaro se siano pienamente conformi agli standard OMS
  • Le tasse sui prodotti del tabacco, considerate uno degli strumenti più efficaci, restano insufficienti in 134 Paesi, Italia compresa
  • Le restrizioni su pubblicità e sponsorizzazioni raggiungono livelli “best practice” solo in 68 Paesi, coprendo appena il 25% della popolazione globale. Anche qui, l’Italia ha leggi restrittive, ma non è tra i Paesi che hanno completato l’applicazione al livello più alto.

Il rischio della “normalizzazione”

L’allarme dell’OMS è chiaro. Mentre sempre più governi adottano politiche coraggiose, l’industria del tabacco continua a reinventarsi, soprattutto tra i più giovani, con sigarette elettroniche e prodotti alternativi che rischiano di riaccendere l’appeal del fumo.

«Non possiamo abbassare la guardia – ha ammonito il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus –. Le politiche funzionano, ma devono essere rafforzate e applicate ovunque, senza compromessi».

La strada da percorrere

Nel mondo, 134 Paesi non hanno ancora portato le tasse sul tabacco a livelli sufficienti per scoraggiare il consumo. Solo un terzo della popolazione globale ha accesso a servizi gratuiti o convenienti per smettere di fumare. E appena un quarto vive in Paesi dove le pubblicità di sigarette sono completamente vietate.

Anche l’Italia, nonostante le leggi sul fumo nei locali pubblici e le immagini shock sui pacchetti, è chiamata a fare di più, soprattutto per proteggere le nuove generazioni e ridurre i danni sanitari, sociali ed economici legati al tabagismo.

Il messaggio che arriva da Dublino è chiaro: le armi per combattere il fumo esistono, i dati dimostrano che funzionano. Sta ai governi – Italia compresa – scegliere se usarle fino in fondo.

L’AIFA ridefinisce i criteri di attribuzione del “patentino” di innovatività ai farmaci

L’AIFA riscrive i requisiti per il riconoscimento dell’innovatività terapeutica, premiando i farmaci per patologie senza reali alternative di cura o con valore aggiunto terapeutico rispetto a quelli già in commercio. A definirlo è la Determina pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 12 luglio, frutto di un’ampia consultazione con associazioni dei pazienti e stakeholder, che definisce anche i nuovi criteri per la classificazione dei farmaci innovativi e per la gestione degli agenti antinfettivi per infezioni da germi multiresistenti, come previsto dall’ultima legge di Bilancio.

I nuovi criteri introdotti sono: bisogno terapeutico, vantaggio terapeutico aggiunto e qualità delle prove

Per la prima volta vengono inclusi automaticamente nel Fondo Farmaci Innovativi gli antibiotici per la lotta all’antimicrobico-resistenza e viene premiata la ricerca nazionale in campo farmaceutico. In fase di valutazione dell’innovatività, potrà infatti essere considerato un valore aggiunto se lo sviluppo preclinico e clinico del medicinale è stato elaborato e condotto in via prevalente in Italia. Un doppio vantaggio per le aziende che investono in ricerca nel nostro Paese e per gli assistiti, dato che il “patentino” dell’innovatività consente l’accesso immediato alla rimborsabilità con automatico inserimento nei prontuari regionali, l’accesso al finanziamento tramite il Fondo per i farmaci innovativi da 1,3 miliardi, di cui 100 milioni destinati agli antibiotici “reserve”, oltre che una corsia preferenziale per l’approvvigionamento da parte degli ospedali.

«L’obiettivo è ottenere farmaci innovativi nelle aree terapeutiche in cui c’è una reale necessità, a vantaggio dei cittadini e dello stesso SSN. È essenziale stabilire quali farmaci possiedono un vantaggio terapeutico tale da meritare incentivi economici che, per garantire la sostenibilità del sistema, non possono essere estesi a tutto ciò che è semplicemente nuovo – afferma il Presidente di AIFA, Robert Nisticò -. Allo stesso tempo, rafforziamo l’impegno per promuovere la ricerca e lo sviluppo farmaceutico nel nostro Paese e il contrasto all’antibiotico-resistenza». 

Le nuove regole per l’accesso al Fondo Farmaci Innovativi sono illustrate nel documento allegato alla Determina. “L’innovatività di un farmaco – si spiega – è valutata sulla base della tecnologia di produzione del suo principio attivo, del suo meccanismo d’azione, della modalità della sua somministrazione al paziente, della sua efficacia clinica e sicurezza, dei suoi effetti sulla qualità della vita nonché delle sue implicazioni sull’organizzazione dell’assistenza sanitaria”.

Lo status di medicinale innovativo, necessario per l’accesso alle risorse e ai benefici del Fondo, viene valutato e attribuito dalla CSE dell’AIFA, sulla base dei nuovi criteri introdotti: bisogno terapeutico, vantaggio terapeutico aggiunto, qualità delle prove. Il bisogno terapeutico – si legge nel documento – è determinato dalla necessità di terapie utili per il trattamento di una malattia per la quale non ci siano terapie disponibili o quando queste “presentano un profilo di efficacia/sicurezza non soddisfacente”.

L’innovatività è riconosciuta in presenza di un bisogno terapeutico, di un vantaggio terapeutico aggiunto e di una qualità delle prove almeno “moderato”. Questo in riferimento alle due scale di valore riportate nello stesso allegato che prevedono 5 livelli per il vantaggio terapeutico (massimo, importante, moderato, minore e assente), mentre sono 4 i livelli per la qualità delle prove (alta, moderata, bassa e molto bassa). Nel caso di medicinali per malattie rare e ultra-rare l’innovatività terapeutica potrà essere valutata anche in presenza di una qualità delle prove “bassa”.

L’accesso al Fondo Farmaci Innovativi avrà una durata massima di 36 mesi e può essere riconosciuto solo a farmaci per il trattamento di “malattie o condizioni patologiche gravi a medio-basso impatto epidemiologico”. L’azienda titolare dell’AIC “può richiedere l’attribuzione del requisito dell’innovatività terapeutica qualora il medicinale, nella specifica indicazione terapeutica, abbia dimostrato rispetto alle alternative terapeutiche (se presenti), di essere in grado di determinare la guarigione o di ridurre il rischio di complicazioni letali o potenzialmente letali, rallentare la progressione della malattia, migliorare la qualità della vita dei pazienti”.

Non sono oggetto di valutazione gli antibiotici definiti “reserve” secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, da utilizzare solo nelle infezioni da germi multiresistenti. Da quest’anno entrano di diritto nel Fondo Innovativi, per incentivare l’impegno contro la resistenza antimicrobica.

Percorsi regionali e innovazione nel glioma di basso grado – Focus Piemonte

I tumori cerebrali, in particolare i gliomi di basso grado, rappresentano una delle patologie più complesse da affrontare per il sistema sanitario: rare ma altamente invalidanti, richiedono diagnosi tempestive, tecnologie all’avanguardia, trattamenti innovativi e una presa in carico multidisciplinare ben strutturata.

Spesso le differenze organizzative tra le Regioni generano disuguaglianze che incidono direttamente sugli esiti clinici e sulla qualità della vita dei pazienti. La capacità dei sistemi regionali di integrare percorsi, innovazione e governance è quindi cruciale.

Il Piemonte rappresenta una delle realtà più avanzate in questo ambito, grazie a un modello consolidato di presa in carico, all’integrazione tra centri di riferimento e territorio e a strategie efficaci per l’accesso alle terapie innovative e alle sperimentazioni cliniche.
La LIVE approfondisce l’esperienza piemontese, con l’obiettivo di analizzare punti di forza, criticità ancora aperte e prospettive di miglioramento, anche alla luce degli unmet needs rilevati sul territorio.

Ne parliamo con:

  • Roberta Rudà
    Responsabile Divisione Neuro-Oncologia, AOU Città della Salute e della Scienza, Torino. Università di Torino. Past President AINO
  • Franco Ripa
    Vicedirettore Assessorato alla Sanità del Piemonte

Conduce:

  • Rossella Iannone
    Direttrice responsabile TrendSanità

Ospedali, luoghi di cura e di episodi di violenza. Quando l’aggressore è il collega

È accaduto in una sala operatoria del Lazio. Alcune settimane fa, un chirurgo ha aggredito fisicamente e verbalmente una collega durante un intervento in sala operatoria. Un episodio grave, ma non isolato, che riporta sotto i riflettori il tema della violenza sia verbale sia fisica nei luoghi di lavoro sanitari. Ne abbiamo parlato con Monica Calamai, medico, già Direttrice generale della ASL di Ferrara e oggi Commissaria straordinaria della ASP di Crotone. Fondatrice della rete “Donne Protagoniste in Sanità”, Monica Calamai è una delle voci più autorevoli sul tema del benessere organizzativo e delle disuguaglianze di genere in sanità.

Dottoressa Calamai quanto sono efficaci oggi le procedure per prevenire e gestire episodi di aggressione tra operatori sanitari?

Monica Calamai

«Le procedure esistono, e la normativa nazionale è stata rafforzata nel tempo. Già prima della pandemia si era intervenuti con leggi per contrastare le aggressioni, soprattutto da parte di pazienti o familiari contro medici e infermieri. Ma oggi abbiamo un quadro ancora più definito: nel 2024, una circolare del Ministero della Salute ha ribadito che ogni azienda sanitaria, ospedaliera, territoriale, universitaria o IRCCS, ha l’obbligo di attivare procedure immediate in caso di violenza, anche verbale. E attenzione: la normativa non si limita agli episodi esterni, ma include chiaramente anche le aggressioni tra operatori. Nessuna eccezione».

Le Aziende sanitarie, a livello interno, hanno strumenti formali per agire? La vittima può sentirsi tutelata, anche nel mantenere l’anonimato?

«Lo prevede la legge. Parliamo di un sistema normativo complesso ma preciso: dalla legge 119 del 2013 contro la violenza di genere, al decreto-legge 92 del 2023, fino alla Convenzione ILO 190, ratificata dall’Italia nel 2021. Quest’ultima è uno strumento internazionale che vincola le organizzazioni pubbliche e private a garantire ambienti di lavoro liberi da molestie e discriminazioni, prevedendo sanzioni severe in caso di omissione o mancata vigilanza. Inoltre, il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 81/2008) è stato aggiornato per includere proprio i casi di violenza tra colleghi. Le segnalazioni possono avvenire anche in forma anonima, se richiesto dalla vittima, e ogni azienda è tenuta a garantire un’indagine interna, ascoltando entrambe le parti e, se necessario, attivando provvedimenti fino al licenziamento. Ma, attenzione: le violenze più insidiose non sono quelle eclatanti. Sono quelle verbali, reiterate, quotidiane. Quelle che logorano e isolano».

In un ambiente ad ‘alta pressione’ come quello sanitario, quanto conta la cultura organizzativa nel prevenire queste dinamiche?

«Abbiamo vissuto, per decenni, in una cultura del “primario eroe”, dell’uomo solo al comando. Una mentalità patriarcale, verticale, dove il potere giustificava anche le prevaricazioni. Ma la severità, il rigore, non devono mai trasformarsi in abuso o arroganza. Ho avuto maestri esigenti, ma rispettosi. Ecco, serve questa cultura: quella del rispetto, della collaborazione, del team. Perché in sala operatoria, come anche in ogni reparto, il lavoro è sempre di squadra. Nessun medico può agire da solo. Dove invece sopravvivono atteggiamenti padronali, autoritari, lì c’è un fallimento organizzativo».

Si parla spesso di ‘benessere organizzativo’: quali strumenti concreti servono per costruirlo davvero, oltre la carta?

«Serve formazione. Serve cultura. Serve coraggio. Nella mia esperienza a Ferrara, per esempio, abbiamo introdotto la certificazione di genere e i bilanci di genere. Il risultato? Un aumento significativo delle segnalazioni di violenza e abusi. Non perché prima non accadessero, ma perché mancava la fiducia nel sistema. Solo quando una persona percepisce che l’organizzazione protegge, allora trova la forza di denunciare. Oggi parliamo tanto di digitalizzazione, di ospedali ‘green’, di umanizzazione delle cure. Ma come possiamo parlare di umanità verso i pazienti, se prima non costruiamo ambienti umani per chi ci lavora dentro?».

Parliamo di comunicazione: quanto incide una comunicazione interna rispettosa e anche quella esterna, mediatica, nel plasmare un clima di lavoro sano?

«La comunicazione è fondamentale, quella interna deve insegnare il rispetto. La capacità comunicativa non è innata, va costruita, va coltivata. E dovrebbe iniziare già all’università, nei corsi di medicina e nelle scuole di specialità. Non possiamo più formare medici col mito del ‘capo infallibile’. Serve educare alla leadership empatica, alla gestione dei conflitti, al valore della diversità.

I media devono smettere di alimentare narrazioni tossiche

Ma c’è anche una responsabilità esterna. I media, ad esempio, devono smettere di alimentare narrazioni tossiche. Nel caso del chirurgo violento, molti articoli, nei primi giorni in cui si è parlato del caso in questione, lo descrivevano quasi come un genio giustificabile. Come se il fatto di ‘salvare vite’ desse licenza di umiliare o aggredire. È un cortocircuito pericoloso. Quella narrazione è una forma di violenza simbolica. Ed è altrettanto dannosa dell’evento in sé».

Dunque, che messaggio vuole lanciare a chi oggi lavora, e magari subisce in silenzio all’interno di Aziende sanitarie?

«Il messaggio è che non devono sentirsi sole. Che la violenza, anche quella ‘nascosta’, ha un nome e può essere riconosciuta. E che oggi, più di ieri, ci sono strumenti normativi, reti di supporto, comunità professionali che ascoltano. “Donne Protagoniste in Sanità” nasce proprio da questo: dare voce, forza, strumenti a chi prima non li aveva. Non si tratta di conflitti personali, ma di una cultura organizzativa da riformare».

Se non ora, quando?

Salutequità: la Piattaforma nazionale delle liste d’attesa non parla ancora la lingua dei cittadini

La Piattaforma Nazionale Liste di Attesa, istituita con Legge 107/2024 e disciplinata dal Decreto del Ministero della Salute del 17 febbraio 2025, nasce per centrare almeno due grandi obiettivi del SSN: il primo è quello di rafforzare il governo delle liste di attesa mediante la messa in pista di un sistema di monitoraggio capillare dei tempi di attesa e di altri indicatori correlati su tutto il territorio nazionale, in grado di fotografare per la prima volta lo stato reale dell’accesso alle cure; il secondo, garantire un più alto livello di trasparenza del SSN su un tema che da sempre presenta elementi di profonda opacità agli occhi dei cittadini.

Proprio su quest’ultimo obiettivo il Decreto afferma che “Cittadini e Associazioni potranno accedere in maniera trasparente a dati in tempo reale sul monitoraggio e verificare gli indicatori predisposti per i tempi di attesa”, e ancora prevedendo che i cittadini sono i “principali beneficiari del progetto” poiché “possono consultare le informazioni fornite dal Portale della Trasparenza”.

Se questo è l’intento dichiarato dalle norme, al contrario, secondo l’analisi svolta dall’Osservatorio Salutequità il risultato prodotto dalla Piattaforma nazionale, almeno sino ad oggi, è ancora lontano dal raggiungere l’obiettivo delineato dal Legislatore.

Per Salutequità e il suo Presidente, Tonino Aceti, guardandola con l’occhio del cittadino, che a oggi «la montagna ha partorito un topolino». Ecco perché.

In primo luogo, se da una parte i dati avrebbero dovuto essere pubblicati in tempo reale, così come previsto dalle norme, dall’altra la piattaforma, al 9 luglio 2025, è ancora inchiodata ai dati di maggio 2025, cioè di circa 1,5 mesi fa, e relativi solo a cinque mesi (gennaio-maggio 2025).

Il secondo luogo, il linguaggio utilizzato nella piattaforma non parla propriamente la lingua dei cittadini. All’interno della parte “core” per i cittadini, cioè quella che informa sul rispetto dei tempi di attesa, si parla di concetti come 1° quartile, mediana e 3° quartile. Concetti, la cui comprensione, anche per i più navigati della sanità, che però non hanno competenze statistiche, risulta particolarmente difficile.

Non è possibile sapere quale sia la percentuale di prestazioni erogate entro i tempi previsti per codice di priorità

E ancora, sull’aspetto più rilevante per i cittadini, la trasparenza del SSN, vale a dire conoscere se la propria Regione, Asl e distretto sanitario siano adempienti o meno rispetto alla loro capacità di garantire il rispetto de tempi massimi di attesa previsti dalla Legge, anche su questo la Piattaforma non gli è ancora di aiuto. Infatti, l’unico dato sul rispetto dei tempi di attesa è di livello nazionale. Quindi la possibilità per i cittadini di valutare, su evidenze, l’operato dei propri Presidenti di Regione, Assessori regionali, Direttori Generali e Direttori di distretto sanitario, è ad oggi, con l’attuale piattaforma nazionale liste di attesa ancora un miraggio.

Inoltre, all’interno dell’indicatore “rispetto dei tempi di attesa” i dati pubblicati si riferiscono ai tempi minimi e massimi di attesa per codice di priorità/prestazione, mentre non è possibile conoscere quale sia la percentuale di prestazioni erogate entro i tempi previsti per codice di priorità.

Guardando agli altri “classici” per i cittadini che si confrontano con le liste di attesa, e cioè le cosiddette agende chiuse o bloccate, anche su questo ancora non è pubblicato alcun dato. Allo stesso modo per quel che riguarda il confronto tra i tempi di attesa dell’attività istituzionale e di quella libero-professionale (intramoenia). Anche su questo ancora nessun dato.

Dubbi anche sull’indicatore “prenotazioni accettate”, cioè quelle prenotazioni per le quali il cittadino ha accettato la prima disponibilità. Ad un primo sguardo sembrerebbe che il cittadino ne rifiuti abbastanza. In realtà, però, manca ancora l’altro dato “core” per i cittadini, cioè la percentuale di prestazioni non accettate dai cittadini perché fuori tempo massimo di attesa per codice di priorità assegnato o perché eseguibili a decine/centinaia di km da casa, fuori ambito di garanzia o dentro un ambito di garanzia individuato senza il rispetto del principio di prossimità e raggiungibilità, così come invece previsto dal Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa 2019-2021.

Infine, assenti le funzionalità informative per permettere al cittadino di verificare in tempo reale i tempi d’attesa specifici per le prestazioni che deve eseguire nella propria ASL, come pure un’area dedicata all’informazione al cittadino, come supporto pratico sul come procedere in caso di ritardi, sui percorsi di tutela e sulle regole regionali in materia.

In conclusione, l’attuale livello di accesso alle informazioni della Piattaforma nazionale Liste di Attesa sembra essere lontano dal poter garantire il livello di trasparenza che serve per permettere ai cittadini di recuperare fiducia nel SSN e per ridurre l’asimmetria informativa che ad oggi esiste tra loro e le istituzioni. Per SAlutequità è quindi necessario che Stato e Regioni rivedano subito il livello di trasparenza della Piattaforma.

Suicidio medicalmente assistito: forte preoccupazione di anestesisti e palliativisti per DDL in discussione

La Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) e la Società Italiana di Cure Palliative (SICP) esprimono forte preoccupazione per l’impianto e i contenuti del disegno di legge sul suicidio medicalmente assistito, attualmente in discussione presso le Commissioni Giustizia e Affari sociali del Senato.

Le due Società scientifiche – quotidianamente impegnate nell’assistenza alle persone in condizioni di estrema fragilità – ribadiscono che una legge su un tema così delicato non può prescindere dalla prossimità, dalla trasparenza e dalla tutela della dignità e dell’autodeterminazione della persona malata. Il testo in esame, pur dichiarandosi attuativo della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, non ne rispetta il dettato sostanziale e si allontana dalle esperienze maturate nei contesti di cura.

Preoccupa in particolare l’esclusione del Servizio Sanitario Nazionale dalla concreta presa in carico della persona e dall’attuazione della procedura. Una simile scelta rischia di privatizzare un momento così critico, lasciando la persona sola, priva di garanzie cliniche ed economiche, e consegnando a logiche esterne alla sanità pubblica un atto di estrema delicatezza. Altrettanto critico è l’affidamento della decisione finale a un organismo centrale, distante, nominato politicamente e privo di qualunque relazione diretta con il paziente, in contrasto con il principio di sussidiarietà e con l’approccio relazionale indicato dalla legge 219/2017.

Il testo non chiarisce inoltre le modalità attuative della procedura, né individua responsabilità professionali, luoghi o criteri per garantire appropriatezza e sicurezza. In parallelo, continua a non offrire risposte credibili alla cronica debolezza della rete delle cure palliative, la cui estensione, accessibilità e sostenibilità restano gravemente inadeguate, nonostante il loro ruolo sia cruciale nel dare senso e valore all’accompagnamento alla fine della vita.

SIAARTI e SICP ritengono urgente un ripensamento dell’intero impianto normativo, affinché la legge non si limiti ad autorizzare una scelta tragica, ma sia in grado di tutelare davvero le persone, offrendo alternative concrete alla sofferenza e percorsi assistenziali centrati sulla prossimità, sulla relazione e sulla qualità delle cure.

Tali preoccupazioni sono state espresse in modo articolato in due documenti inviati da SIAARTI e SICP ai Presidenti delle Commissioni Giustizia e Affari sociali del Senato. Le due Società confermano la propria disponibilità al dialogo con le istituzioni, nella convinzione che solo con il contributo delle competenze cliniche, etiche e relazionali di chi opera quotidianamente accanto ai pazienti si possa costruire una legge più giusta, chiara e rispettosa della complessità umana di queste scelte.

Parkinson: il 74% dei caregiver presta assistenza ogni giorno, ma solo il 14% riceve aiuti economici

È stato pubblicato sulla rivista Neurological Sciences lo studio “Caregiver burden in Parkinson’s disease: a nationwide observational survey”, il primo lavoro scientifico italiano sul carico assistenziale dei caregiver di pazienti con malattia di Parkinson, promosso dalla Fondazione LIMPE per il Parkinson ETS.

La ricerca è stata coordinata da Mario Zappia e da Giulia Donzuso del Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Tecnologie Avanzate dell’Università di Catania ed è stata promossa da Fondazione LIMPE per il Parkinson ETS e da Confederazione Parkinson Italia.

Mediante un questionario online anonimo, lo studio ha raccolto le testimonianze e i dati di 478 caregiver provenienti da tutto il territorio nazionale. Il profilo che emerge è chiaro e preoccupante: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di donne tra i 55 e i 70 anni, spesso partner conviventi della persona con Parkinson, chiamate a sostenere un carico crescente di responsabilità. Se nelle fasi iniziali della malattia l’assistenza può limitarsi a pochi giorni a settimana, con il tempo tre caregiver su quattro dichiarano di fornire supporto quotidiano, e oltre il 40% lo fa per l’intera giornata.

L’impatto di questo impegno sulla vita personale, lavorativa e sulla salute è importante. Il 15% degli intervistati ha dovuto abbandonare il lavoro per dedicarsi all’assistenza, una scelta che riguarda in particolare le donne. Chi mantiene l’impiego spesso perde giorni di lavoro ogni mese, senza disporre di adeguate facilitazioni. Anche sul piano economico le difficoltà sono diffuse: il 60% dei partecipanti segnala cambiamenti significativi nella propria situazione finanziaria, legati soprattutto alle spese per riabilitazione, assistenza domestica e spostamenti per cure mediche. Solo una minima parte – appena il 14% – riceve un supporto economico concreto.

Anche sul fronte della salute, il quadro è drammatico. Due caregiver su tre riferiscono conseguenze dirette sul proprio equilibrio fisico e psicologico: stanchezza cronica, insonnia, rabbia, depressione. Il 73% ha dovuto rinunciare ad attività personali, viaggi, hobby e relazioni sociali. E mentre oltre la metà si trova ad affrontare situazioni complesse nell’assistenza quotidiana, solo il 9% ha ricevuto una formazione specifica; il 40% esprime il desiderio di accedervi, anche per orientarsi tra aspetti legali e burocratici.

Lo studio sottolinea in modo netto come il carico assistenziale sia tutt’altro che invisibile. Al contrario, si tratta di un peso reale e multidimensionale che incide su ogni aspetto della vita di chi si prende cura. Le donne, ancora una volta, risultano le più esposte: meno tutelate nel lavoro, più vulnerabili sul piano della salute, spesso lasciate sole in un ruolo cruciale ma poco riconosciuto.

Alla luce di questi risultati, gli autori evidenziano l’urgenza di un cambio di passo. Servono politiche pubbliche più coraggiose, che includano formazione, supporto psicologico, agevolazioni lavorative, assistenza domiciliare integrata e, soprattutto, un riconoscimento formale del ruolo essenziale che i caregiver svolgono nel sistema di cura. «La nostra ricerca – afferma il professor Zappia – è un primo passo per restituire voce e dignità a migliaia di persone che ogni giorno, nell’ombra, sostengono i propri cari. Ora tocca alle istituzioni e alla società civile raccogliere questo appello e trasformarlo in azione concreta».

Anche la Fondazione LIMPE per il Parkinson, promotrice dello studio, ribadisce la necessità di riportare il ruolo dei caregiver al centro del dibattito pubblico. L’obiettivo è chiaro: trasformare i risultati dell’indagine in strumenti concreti di formazione, sostegno e riconoscimento. «I caregiver sono un presidio silenzioso e insostituibile del nostro sistema di cura – dichiara il professor Michele Tinazzi, presidente della Fondazione –. È nostro dovere, come comunità scientifica e civile, riconoscerne il valore e garantire loro il supporto necessario». Perché chi si prende cura, non può essere lasciato solo.

Tumori: cresce l’adesione agli screening in Italia, ma il Sud è ancora indietro

Cresce in Italia l’adesione agli screening preventivi per i tumori, nel caso della mammografia superando i valori pre pandemia, ma rimane una forte differenza geografica, con il sud che registra la partecipazione più bassa. Lo affermano i dati della sorveglianza Passi dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicati oggi, relativi agli anni 2023-2024.

Screening mammografico

dati PASSI 2023-2024 mostrano che in Italia il 75% delle donne fra i 50 e i 69 anni si è sottoposto allo screening mammografico a scopo preventivo, all’interno di programmi organizzati o per iniziativa personale, nei tempi raccomandati dalle linee guida nazionali e internazionali (che suggeriscono alle donne di questa classe di età di sottoporsi a mammografia ogni due anni per la diagnosi precoce del tumore al seno).

La quota di donne che si sottopone allo screening mammografico è maggiore fra quelle più istruite o con maggiori risorse economiche, fra le donne di cittadinanza italiana rispetto alle straniere e fra le donne coniugate o conviventi. La copertura disegna un chiaro gradiente Nord-Sud con una copertura totale dell’86% al Nord, 80% al Centro e solo del 62% nelle Regioni meridionali. Il Friuli Venezia Giulia (90%) è la Regione con la copertura maggiore, la Calabria (46%) quella con le coperture totali più basse. Negli anni il gap geografico si è ridotto e la quota di donne che si sottopone a mammografia a scopo preventivo è aumentata, grazie soprattutto all’aumento dell’offerta/adesione ai programmi organizzati avvenuta ovunque nel Paese.

In questa analisi delle evoluzioni temporali si inserisce la pandemia di COVID-19 che nel 2020 e nel 2021 ha determinato una riduzione della copertura totale dello screening mammografico sia per una riduzione dell’offerta dei programmi da parte delle ASL, impegnate nella gestione dell’emergenza sanitaria, sia per un calo dell’adesione da parte delle donne alle quali erano rivolti gli inviti. Nel 2022 la copertura dello screening ha ricominciato ad aumentare, arrivando nel 2024 a superare i valori pre-pandemia.

Non è trascurabile la quota di 50-69enni che non si è mai sottoposta a una mammografia a scopo preventivo o lo ha fatto in modo non ottimale: 1 donna su 10 non ha mai fatto un esame mammografico e quasi il 15% riferisce di averlo eseguito da oltre due anni.

«La prevenzione del tumore della mammella – sottolinea Maria Masocco, che coordina la sorveglianza – avviene per lo più nell’ambito di programmi organizzati dalle ASL a cui partecipano più della metà delle donne alle quali sono dedicati, mentre la restante quota di donne che si sottopone a una mammografia preventiva nei tempi raccomandati lo fa al di fuori dei programmi organizzati (un ulteriore 20% circa della popolazione target). Lo screening organizzato riduce notevolmente le disuguaglianze sociali di accesso alla prevenzione e per la gran parte delle donne meno istruite o con maggiori difficoltà economiche l’offerta di un programma rappresenta l’unica possibilità di fare prevenzione del tumore della mammella».

Screening colorettale

La copertura nazionale dello screening colorettale in Italia resta ancora piuttosto bassa: nel biennio 2023-2024 il 47% degli intervistati nella fascia di età 50-69 anni riferisce di aver eseguito un test a scopo preventivo per la diagnosi precoce dei tumori colorettali (ricerca del sangue occulto fecale negli ultimi due anni oppure colonscopia/rettosigmoidoscopia negli ultimi cinque anni).

Vi è una forte variabilità da Nord a Sud a sfavore delle Regioni meridionali dove la quota di persone che si sottopone allo screening raggiunge appena il 30%, nel biennio 2023-2024, valore che raggiunge il 55% nelle Regioni centrali e il 62% fra i residenti nel Nord Italia.

La gran parte delle persone che ha effettuato lo screening colorettale lo ha fatto nell’ambito di programmi organizzati dalle ASL (39%), mentre quello eseguito su base spontanea (ossia al di fuori dell’offerta delle ASL) è poco frequente (quasi 8%). Dal 2010, la copertura totale dello screening colorettale (dentro e fuori i programmi organizzati) è andata aumentando significativamente in tutto il Paese, grazie all’aumento dell’offerta dei programmi e dell’adesione dei cittadini.

Tuttavia l’emergenza sanitaria per la gestione della pandemia di COVID-19 si è tradotta, da un parte, in un ritardo e in una conseguente sostanziale riduzione dell’offerta dei programmi di screening organizzati da parte delle ASL e, dall’altra, in una riduzione di adesione da parte della popolazione, con il risultato che nel biennio 2020-2021 la copertura dello screening colorettale (come accade per gli altri screening oncologici) subisce una significativa riduzione, che dal 2022 sembra riprendere a crescere, raggiungendo i valori pre-pandemia nel 2024.

Screening cervicale

Dai dati PASSI 2023-2024 risulta che in Italia il 78% delle donne fra i 25 e i 64 anni di età si sottopone allo screening cervicale a scopo preventivo, all’interno di programmi organizzati o per iniziativa personale, secondo quanto raccomandato dalle linee guida nazionali. La quota di donne che si sottopone allo screening cervicale è maggiore fra le più istruite (84% fra le laureate vs 50% fra chi al più licenza elementare) o con maggiori risorse economiche (81% fra chi non ha difficoltà vs 67% fra chi riferisce molte difficoltà economiche), fra le cittadine italiane rispetto alle straniere (78% vs 69%) e fra le coniugate o conviventi (80% vs 73%). La copertura dello screening cervicale disegna un netto gradiente geografico Nord-Sud che divide l’Italia in due, con coperture mediamente pari all’84% nelle Regioni del Nord e Centro Italia (90% in Friuli Venezia Giulia) e 69% nelle Regioni del Sud (con coperture minime per la Calabria, 59%).

Per quanto riguarda l’andamento temporale, l’emergenza sanitaria per la gestione della pandemia di COVID-19 si è tradotta, da un parte, in un ritardo e sostanziale riduzione dell’offerta dei programmi di screening organizzati da parte delle ASL (che solo in parte il ricorso allo screening su iniziativa spontanea è riuscito a compensare) e, dall’altra, in una riduzione di adesione da parte della popolazione, con il risultato che nel 2020 la copertura dello screening cervicale (come accade per gli altri screening oncologici) subisce una significativa riduzione, che ancora non viene recuperata.

Nel 2024, infatti, i valori sono ancora sovrapponibili a quelli del 2020 e la copertura è ancora lontana dai valori pre-pandemia. Questo è certamente il risultato dell’impatto della pandemia sulla offerta e adesione agli screening, ma non si può escludere sia anche determinato dai cambiamenti nell’offerta del programma di screening cervicale e nella sua personalizzazione per età e stato vaccinale contro HPV delle coorti più giovani di donne. Una quota non trascurabile di donne 25-64enni intervistate riferisce di non essersi mai sottoposta allo screening cervicale (11%). La motivazione più frequentemente riferita per la mancata esecuzione dello screening cervicale è quella di “penso di non averne bisogno”.

Sen. Sbrollini: «Preoccupa carenza dei pediatri di famiglia, governo risponda al diritto alla salute dei cittadini»

«Sono molto preoccupata per i dati che riguardano i pediatri di famiglia – dichiara la Sen. Daniela Sbrollini, Vicepresidente della X Commissione Affari sociali, sanità, lavoro e previdenza sociale del Senato commentando i numeri diffusi nei giorni scorsi da Fondazione GIMBE –. Oggi in Italia ne mancano 500, ma entro il 2028 saranno oltre 2.500 i pediatri che andranno in pensione, con il rischio che questa emergenza possa assumere dimensioni ancora più allarmanti. Il Veneto, assieme a Piemonte e Lombardia, è una delle regioni più colpite da questo problema che si inquadra in una generale crisi del nostro sistema sanitario e che non sarà certo il calo demografico a risolvere. Per questo motivo ho presentato una interrogazione al Ministro, assieme alla mia collega Sen. Annamaria Furlan, per conoscere le iniziative che il Ministero ha in mente di promuovere per evitare di dover sospendere il servizio alle famiglie in molte località del territorio».

Daniela Sbrollini

«Secondo un recente rapporto dell’OCSE – prosegue la Sen. Sbrollini – gli italiani, insieme a greci, spagnoli e cileni, sono tra i cittadini più preoccupati per sanità, invecchiamento e fragilità economica, e allo stesso tempo sono anche fra i popoli con la fiducia più bassa nei confronti dello Stato. Solo il 36% degli italiani accetterebbe un aumento del 2% delle imposte per migliorare la sanità pubblica. Questo rappresenta un sentimento di sfiducia complessivo nei confronti dello Stato e delle Istituzioni, che fa riflettere su quanto la situazione troppo spesso tangibilmente drammatica della nostra sanità influisca anche sulla percezione concreta da parte dei cittadini che la politica abbia la forza e la volontà di cambiare le cose. Secondo i dati OCSE, il 74% degli italiani teme di ammalarsi o diventare disabile, e l’80% si dice preoccupato per l’accesso a cure sanitarie di qualità. Il 71% degli italiani è preoccupato per l’accesso futuro a cure di lungo termine per sé stessi e il 74% teme di non riuscire ad accedere a servizi adeguati per familiari anziani».

«Questo scenario di grave preoccupazione si riflette nella realtà delle troppe mancanze del nostro Sistema Sanitario oggi. – sottolinea la Sen. Sbrollini –  La carenza di medici di base è purtroppo ben nota, ci sono cittadini senza medico di riferimento, altri che non cercano più nemmeno di ottenerne uno. E altrettanto preoccupante è la carenza di pediatri. L’infanzia è un momento molto delicato della vita di una persona: la prevenzione parte da quella età, così come molte vaccinazioni. E tutti noi sappiamo quanto la prevenzione sia fondamentale non solo per la salute individuale, ma anche come caposaldo della tenuta e della sostenibilità dello stesso Sistema Sanitario. La programmazione è saltata, la sanità rischia il collasso: le famiglie non possono essere lasciate da sole. Bisogna recuperare tutto questo e il governo ha il dovere di trovare in fretta delle soluzioni che rispondano ai diritti fondamentali dei cittadini».

Telemedicina per il monitoraggio del paziente oncologico a domicilio: una valutazione multidimensionale

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Introduzione

Negli ultimi anni, si è registrata una crescente attenzione verso la necessità di modernizzare e trasformare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Un punto di svolta cruciale è stato il 2020, quando la pandemia da SARS-CoV-2 ha reso imprescindibili il distanziamento sociale e la riduzione del contatto fisico, accelerando a livello globale l’adozione di soluzioni digitali e sistemi virtuali.

In questo scenario, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), inserito nel più ampio programma europeo Next Generation EU, ha destinato ingenti risorse al rafforzamento dei sistemi sanitari, delineando una vera e propria svolta epocale verso la costruzione di servizi più resilienti, equi e sostenibili. Tra le tecnologie digitali più promettenti ha assunto un ruolo sempre più centrale la telemedicina. Nata negli anni Sessanta con i primi sistemi di monitoraggio degli astronauti sviluppati dalla NASA, la telemedicina ha conosciuto una significativa evoluzione grazie alla diffusione di internet e dei dispositivi mobili. Oggi rappresenta uno strumento strategico per la gestione a distanza dei pazienti, consentendo il monitoraggio dei parametri vitali (PV) e degli esiti riferiti dai pazienti (PROMs), migliorando l’accessibilità alle cure e contribuendo alla riduzione dei costi complessivi del sistema sanitario.

La telemedicina consente il monitoraggio dei parametri vitali e degli esiti riferiti dai pazienti

Tra i diversi ambiti applicativi della telemedicina, standardizzati a partire dall’Accordo Stato-Regioni del 2014 – attraverso il quale è entrata ufficialmente a far parte dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) – merita particolare attenzione il telemonitoraggio. Questo consiste nel monitoraggio a distanza di parametri clinici mediante l’uso di dispositivi digitali, configurandosi come una risposta innovativa e concreta ad alcune delle principali sfide che oggi interessano i sistemi sanitari.

In un contesto caratterizzato da un progressivo invecchiamento della popolazione [ISTAT, 2023], da persistenti disuguaglianze territoriali nell’accesso alle cure, e dalla necessità di gestire in modo efficiente patologie croniche e ad alta complessità, il telemonitoraggio si propone come uno strumento capace di migliorare l’equità e l’efficacia dell’assistenza.

Un ambito di applicazione rilevante per quanto concerne il telemonitoraggio riguarda le patologie oncologiche, per le quali, secondo le stime AIRC [I numeri del cancro 2024], si registrano circa 390.000 nuove diagnosi di neoplasie solide ogni anno solo in Italia. Difatti, in tali contesti, il telemonitoraggio può supportare un’assistenza più personalizzata, continua e territoriale, contribuendo a ridurre il carico ospedaliero e a migliorare la qualità di vita dei pazienti, rappresentando pertanto un supporto un supporto fondamentale per i pazienti che risiedono lontano dai centri ospedalieri, consentendo loro di accedere a consulenze specialistiche e servizi di monitoraggio continuo senza dover affrontare spostamenti frequenti e spesso onerosi [AIOM, 2020].

Il telemonitoraggio può ridurre il carico ospedaliero e migliorare la qualità di vita dei pazienti

I notevoli progressi registrati negli ultimi decenni nelle terapie antitumorali e nella gestione clinica delle patologie oncologiche hanno reso possibile la somministrazione di cure attive – ovvero in fasi della malattia in cui i trattamenti antineoplastici sono ancora in corso – anche al di fuori del contesto ospedaliero. In questo scenario si inserisce lo sviluppo dell’assistenza domiciliare oncologica, avviata in Italia già nel 1987 con il progetto pilota DOM, realizzato a Modena, e successivamente estesa ad altre realtà, tra cui l’ASST-Settelaghi che, a metà degli anni ’90, ha avviato il progetto Homcology. Tali iniziative hanno tracciato un percorso di integrazione tra cure domiciliari e ospedaliere, promuovendo un modello di assistenza più vicino ai bisogni del paziente, capace di coniugare efficacia clinica, sostenibilità organizzativa e qualità della vita.

Il modello di assistenza domiciliare oncologica, come quello implementato nel progetto Homcology, si basa su criteri di eleggibilità ben definiti, volti a identificare pazienti che possono trarre beneficio da un percorso di cura attivo al di fuori dell’ambiente ospedaliero. In particolare, possono accedere al servizio:

  • pazienti con indicazione a trattamento oncologico attivo ma impossibilitati a recarsi in ambulatorio a causa di disabilità legate alla patologia tumorale o a deficit neurologici e motori non riconducibili direttamente alla neoplasia;
  • persone malate che vivono in condizioni ambientali disagiate e/o che presentano difficoltà familiari o sociali tali da compromettere l’accesso continuativo alle cure ambulatoriali;
  • pazienti che hanno interrotto le cure attive per la patologia oncologica, in condizioni di fragilità clinica e con una previsione di vita superiore a sei mesi, ma che non soddisfano i criteri per l’inserimento nei programmi di Ospedalizzazione Domiciliare per Cure Palliative (ODCP).

La selezione dei pazienti si articola su due dimensioni principali: l’eleggibilità clinica e le preferenze espresse dal paziente e dal caregiver.

Per quanto riguarda l’eleggibilità clinica, vengono presi in esame diversi fattori, tra cui il tipo di neoplasia, l’indicazione terapeutica, lo stadio e la severità della malattia, nonché le condizioni generali del paziente, valutate tramite strumenti validati come il G8 Screening Tool. Quest’ultimo consente di identificare tre elementi fondamentali per l’accesso al programma: il livello di intensità di cura richiesto, le condizioni socioeconomiche e ambientali, e il grado di alfabetizzazione sanitaria del paziente e del caregiver.

L’assistenza domiciliare in questo contesto si configura non solo come una risposta clinicamente efficace, ma anche come un’opportunità per migliorare il benessere complessivo della persona. Essa consente di ridurre il senso di abbandono, rafforzare la continuità della cura, migliorare l’accessibilità ai trattamenti e abbattere le barriere territoriali. Sul piano organizzativo, si traduce in una gestione più fluida da parte della struttura ospedaliera, con una riduzione dell’affluenza ambulatoriale e un impatto positivo sui costi.

Alla luce di queste premesse, l’obiettivo del presente lavoro è quello di valutare l’efficacia del telemonitoraggio nell’ambito del progetto, confrontandone gli esiti con quelli derivanti dalla gestione tradizionale in regime di Day Hospital (DH), utilizzando dati real-life. Tale confronto permetterà di esplorare il valore aggiunto del modello domiciliare supportato dalla telemedicina, sia in termini di esiti clinici che di sostenibilità organizzativa ed economica.

Metodi

Per il raggiungimento dell’obiettivo è stata condotta una valutazione multidimensionale, seguendo le logiche dell’Health Technology Assesment (HTA), che risulta essere una metodologia usata in sanità per indagare non solo l’efficacia clinica, ma anche gli aspetti economici, organizzativi e sociali legati all’uso e implementazione della tecnologia nei processi assistenziali.

Giacché la tecnologia oggetto di indagine è il telemonitoraggio, il modello utilizzato è il “Multicriteria Utility-based Structured Tool for Health Technology Assessment” – MAST [Kidholm et al., 2012] che ha permesso di valutare, in maniera olistica, gli impatti dell’Homcology (Scenario TO BE) rispetto allo usual care (Scenario AS IS). Nello specifico, tra i sette domini proposti dal MAST, l’analisi che verrà presentata nel seguito prenderà in considerazione i seguenti quattro impatti:

  • outcome clinici, con particolare attenzione alla sicurezza e all’efficacia di Homcology rispetto allo usual care. Nella presente analisi, tali outcome sono stati reperiti mediante raccolta dati di real-life, grazie al grande contributo dell’Area Sviluppo e Ricerca DAPSS Aziendale. Considerando i pazienti riferibili all’attività del DH Oncologico dell’ASST dei Sette Laghi di Varese. Nello specifico è stata posta particolare attenzione all’occorrenza di ricoveri e di accessi in PS per medesima patologia, così così da poter dimostrare non solo un’efficacia temporale nella gestione prematura delle tossicità ma anche la gestione in toto degli effetti avversi alla terapia:
  • sostenibilità economica e organizzativa. Anche per la disamina di questo dominio, sono stati raccolti i dati aziendali riferiti ai pazienti in carico nel corso dell’anno 2023 tutti afferenti al servizio di DH aziendale e i pazienti in carico al progetto domiciliare Homcology. Nello specifico si sono definiti i professionisti sanitari coinvolti in entrambi i percorsi, focalizzando l’attenzione sul tempo speso per ogni attività svolta;
  • impatto sociale ed etico, sviluppato sottoponendo un questionario qualitativo ai professionisti sanitari che attualmente prestano la propria attività presso le UO di Oncologia Medica, DH e progetto Homcology, così da raccogliere le percezioni dei professionisti sul valore aggiunto di Homcology in termini di soddisfazione e qualità di vita del paziente.

Risultati

In linea generale nell’anno solare 2023 (dal 1° gennaio 2023 al 31 dicembre 2023 inclusi), afferiscono ai DH Aziendali 1.124 utenti. Il servizio domiciliare Homcology, nel medesimo tempo di riferimento contempla 184 pazienti.

La Tabella 1 mostra le caratteristiche della popolazione coinvolta, unitamente alla necessità di ospedalizzazione e all’occorrenza di decessi.

  Scenario as is
Usual CARE
Scenario to be
homcology

Pazienti totali in carico

1.124

184

Età media

62 (18-90)

71 anni (38-93)

Durata media presa in carico

160 giorni

175 giorni

Terapia attiva

1.561*

95% 174 pazienti

Numero medio accessi mensili

2 medico 3 infermieristico

1.4 medico 1.8 infermieristico

Ricovero

45% (31% in PS)

19% (9% in PS)

Decesso

41%

38%

Tabella 1. Comparazione tra scenario AS IS e Scenario TO BE

*La discrepanza dei due dati (pazienti totali in carico e pazienti in terapia attiva) è la somma tra i nuovi trattamenti con i trattamenti in prosecuzione dell’anno precedente

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In questa comparazione dei flussi di pazienti presi in carico nel servizio di DH e nel progetto Homcology nel medesimo periodo temporale (anno 2023), escludendo a monte le terapie attive che necessitano dell’infrastruttura in particolare del servizio UMaCA (Unità Manipolazione Chemioterapici Antiblastici), la stima fatta sulla possibilità di prendere in carico i pazienti oggi afferenti al DH e quindi agganciarli al progetto è del 20-30% circa. Questo permette l’identificazione di una nuova popolazione target, che amplia la qualità dell’assistenza soprattutto in pazienti con necessità di monitoraggio regolare, pensiamo alle tossicità, favorendo migliore compliance e partecipazione al processo di cura. Da un punto di vista di efficacy e safety, il dato più significativo dimostra come il telemonitoraggio domiciliare riduca i ricoveri e gli accessi in PS per medesima patologia, fenomeno legato alla tempestività di gestione degli effetti avversi e alla maggiore aderenza alle cure.

Focalizzando l’attenzione sull’impatto economico-organizzativo correlato all’effort delle risorse umane coinvolte per lo svolgimento delle attività dedicate al management dei pazienti, in prima istanza è opportuno definire il bacino di utenza eleggibili a DH e al progetto Homcology. Con l’implementazione della telemedicina quindi si vedrebbe un aumento del numero di pazienti seguiti al domicilio per un 30% totale, il 16% in più rispetto alla situazione attuale, dalla quale deriva un numero di pazienti totali pari a 392 su tutto il territorio provinciale per la sola patologia oncologica in cure attive.

 

As is

To be

DH

1.124

86%

916

70%

Telemedicina

184

14%

392

30%

Totale

1.308

100%

1.308

100%

Tabella 2. La popolazione

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Proseguendo nell’analisi considerando anche gli accessi annui per controlli, al netto della terapia infusionale i dati sono pari a 17 per quanto concerne il percorso di DH e 9 per quanto concerne il percorso di telemedicina. Rapportando questi valori al totale dei pazienti presi in carico (N = 1.308), emerge che l’adozione del telemonitoraggio è associata a una riduzione complessiva del numero di accessi pari all’8%.

Accessi totali

As is

To be

Scostamento

%

DH

19.482,6

15.870,4

-3.612

-19%

Telemedicina

1.674,4

3.570,84

1.896

113%

21.157

19.441

-1.716

-8%

Tabella 3. Focus sul numero di accessi

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Ogni accesso prevede uno slot di 30 minuti, e richiede l’intervento sia del medico oncologo sia dell’infermiere. Traducendo i 1.716 accessi evitati in termini di tempo risparmiato, si ottiene un totale di 51.475 minuti risparmiati. Valorizzando questo saving organizzativo, si riscontra come il risparmio complessivo in termini di effort professionale sia pari a 54.563,29 euro. Questo dato rappresenta un primo indicatore economico del potenziale vantaggio associato all’adozione del modello di telemonitoraggio rispetto alla gestione tradizionale in DH, contribuendo alla sostenibilità del sistema attraverso una razionalizzazione delle risorse umane.

Ultimo dominio indagato è la percezione dei professionisti: come illustrato nella sezione metodologica, è stato somministrato un questionario qualitativo a 40 professionisti che lavorano nell’area oncologica. Di questi, il 90% ha risposto interamente riducendo il campione a 36 soggetti, aventi una età media 35 anni e una anzianità di servizio di 11 anni.

Tutti i professionisti intervistati hanno dichiarato di non aver ricevuto una formazione adeguata sull’uso delle piattaforme digitali, né di avere esperienze pregresse con strumenti di telemedicina. Questo evidenzia una lacuna significativa nei percorsi formativi aziendali, che risultano scarsi o assenti.

Per quanto concerne l’accesso digitale di pazienti e caregiver, solo il 12% degli operatori ritiene che i pazienti abbiano accesso diretto a una rete internet stabile, mentre il 90% ritiene che i caregiver possano supplire a questa mancanza. Questo suggerisce che, pur in presenza di un digital divide generazionale, il coinvolgimento dei caregiver può rappresentare una leva abilitante per l’accesso alla telemedicina.

In linea generale il 70% si sente a proprio agio nel prendere decisioni cliniche via telemedicina, a patto che vi siano buone condizioni comunicative e ambientali. Tuttavia, il 100% del campione esprime incertezza rispetto alla possibilità che la telemedicina offra un’assistenza equivalente alla visita in presenza, soprattutto per il valore attribuito all’empatia e alla relazione diretta nel primo incontro. L’80% giudica inadeguata l’infrastruttura tecnologica aziendale, pur ritenendo nel 90% dei casi che sia possibile gestire efficacemente i pazienti a distanza.

Tutti i partecipanti percepiscono un risparmio di tempo grazie alla telemedicina (60% molto, 40% abbastanza). L’80% ritiene che favorisca un accesso più rapido alle cure, soprattutto per consulti brevi o follow-up. Il 75% è incerto sulle limitazioni diagnostiche, mentre nessuno ritiene che la telemedicina aumenti il carico di lavoro, anche grazie alla riduzione della burocrazia tramite digitalizzazione dei dati. Inoltre, il 75% ritiene che possa migliorare la qualità dell’assistenza al paziente. Tutti sono favorevoli all’implementazione della telemedicina nel progetto Homcology, considerandola adatta per pazienti domiciliari.

Conclusioni

Per approfondire il valore aggiunto dell’implementazione della telemedicina nel progetto Homcology, è utile ricorrere a una lettura in chiave strategica attraverso l’analisi SWOT, che consente di mettere in luce punti di forza, debolezza, opportunità e minacce associati a questo cambiamento organizzativo.

Tra i principali punti di forza, la telemedicina si distingue per la sua capacità di migliorare l’accessibilità alle cure, riducendo le tempistiche di attesa e aumentando l’efficienza dei servizi sanitari. Il monitoraggio continuo consente una gestione più tempestiva e personalizzata dei pazienti, favorendo una maggiore aderenza terapeutica e permettendo agli operatori sanitari di intervenire con raccomandazioni più frequenti e mirate. A questo si aggiunge la significativa riduzione dei costi legati al personale, agli spostamenti e ai ricoveri ospedalieri, nonché la grande adattabilità della telemedicina, che può essere impiegata in contesti e per bisogni molto differenti.

Sul fronte delle debolezze, emerge l’elevata dipendenza dalla tecnologia: l’efficacia dell’intervento è strettamente legata alla disponibilità di infrastrutture digitali adeguate e alla capacità di utilizzo da parte di utenti e operatori. Inoltre, permangono alcune limitazioni cliniche, come l’impossibilità di effettuare esami obiettivi o di instaurare un rapporto empatico attraverso il contatto diretto, aspetti che possono influenzare negativamente la qualità percepita dell’assistenza. È inoltre necessario prevedere interventi formativi per professionisti e pazienti, al fine di rafforzare le competenze digitali e garantire un uso consapevole ed efficace degli strumenti. Un’ulteriore criticità è rappresentata dalla difficoltà di integrazione della telemedicina con i sistemi informativi sanitari esistenti, ostacolando una piena interoperabilità dei dati.

Le opportunità che si aprono con l’adozione della telemedicina sono molteplici. Essa contribuisce a un approccio più sostenibile e “green”, riducendo l’impatto ambientale derivante dagli spostamenti e dalle strutture fisiche. Offre inoltre nuove possibilità per la promozione e la prevenzione della salute, rendendo più costante la presenza del sistema sanitario nella vita del paziente e favorendo una maggiore consapevolezza e aderenza alle cure. L’integrazione con applicazioni per la salute e con altri strumenti digitali amplia il campo d’azione, favorendo anche l’espansione del mercato e l’innovazione nei modelli di servizio. Infine, la telemedicina si allinea perfettamente con le direttrici del PNRR, in particolare con il pilastro dedicato alla digitalizzazione e all’innovazione in sanità.

Non mancano tuttavia alcune minacce. Tra queste, la resistenza al cambiamento sia da parte dei professionisti sanitari che dei pazienti, che potrebbero mostrare riluttanza ad affidarsi a modalità di assistenza virtuale. Le problematiche legate alla cybersecurity – in particolare la protezione dei dati e della privacy – rappresentano un rischio concreto, così come la mancanza di uniformità normativa tra diversi contesti nazionali, che può ostacolare una diffusione omogenea del modello. Infine, l’incertezza economica e l’assenza, in alcuni casi, di modelli di rimborso strutturati rendono più complesso l’avvio del progetto, soprattutto in fase iniziale, quando gli investimenti sono consistenti.

In conclusione, l’analisi evidenzia come l’integrazione della telemedicina nel progetto Homcology rappresenti una soluzione efficace per rafforzare l’assistenza domiciliare oncologica. Non si tratta solo di una risposta concreta alle sfide attuali, ma anche di un’evoluzione coerente con una visione futura della sanità, orientata a un sistema più equilibrato, resiliente e capace di adattarsi ai bisogni di salute di una popolazione in continua trasformazione.

Bibliografia