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Immunizzazione per tutti fin dai primi giorni di vita

Parte con lo slogan “L’immunizzazione per tutti è umanamente possibile”, la Settimana Mondiale dell’Immunizzazione 2025, che si celebra dal 24 al 30 aprile, promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). «Proteggere il cucciolo d’uomo sin dall’epoca neonatale dal rischio di contrarre infezioni è un’attenzione specifica della Società Italiana di Neonatologia (SIN), da sempre fortemente impegnata nel promuovere strategie di profilassi universale delle malattie trasmissibili – afferma Massimo Agosti, Presidente SIN -. La Settimana Mondiale dell’Immunizzazione è un’importante occasione per continuare a sensibilizzare l’intera comunità contro le malattie trasmissibili sin dalle primissime epoche di vita, attraverso le vaccinazioni, ma anche adottando tutte le modalità di prevenzione disponibili per tutelare i più piccoli».

Ad inizio vita, la prima semplice, ma efficace, protezione naturale del neonato è rappresentata dal latte materno, tesoro inestimabile per la salute e il benessere dei piccoli, che si rivela fondamentale in particolare per i nati prematuri o ricoverati in Terapia Intensiva Neonatale (TIN). Numerosi studi hanno ampiamente dimostrato i benefici unici del latte materno, non solo come alimento, ma anche come potente difesa contro un gran numero di malattie e infezioni, contribuendo a rafforzare il sistema immunitario del neonato. I neonati e i lattanti sono, infatti, particolarmente vulnerabili alle infezioni a causa dell’immaturità del loro sistema immunitario, che non è ancora completamente sviluppato. Di conseguenza, garantire una protezione adeguata contro virus e batteri è fondamentale per preservare la loro salute presente e futura.

Tra le altre principali misure preventive ci sono, poi, il lavaggio frequente delle mani e l’uso di dispositivi di protezione individuale quando un familiare ha un’infezione, prestando particolare attenzione a fratelli o sorelle in età scolare. La scienza e l’intelligenza umana ci offrono la possibilità di incrementare tale protezione, in modo significativo e duraturo verso determinate malattie particolarmente temibili per il piccolo, grazie all’immunoprofilassi, che racchiude le principali pratiche di immunizzazione mediante i vaccini previsti nei primi mesi di vita e più recentemente con l’utilizzo di anticorpi specifici come nel caso dell’anticorpo monoclonale contro il Virus Respiratorio Sinciziale, che, introdotto da quest’ultima stagione epidemica 2024-25, ha contribuito a ridurre, in modo netto, l’incidenza della bronchiolite nel nostro Paese, malattia che può determinare quadri clinici gravi, soprattutto nell’età neonatale e nei primi mesi di vita.

È prevista la somministrazione di una singola dose di anticorpi monoclonali contro il VRS, eseguibile per tutti i nati durante la stagione epidemica (ottobre-marzo), direttamente presso il Centro nascita prima della dimissione, mentre per i nati tra aprile e settembre può essere eseguita prima dell’inizio della stagione epidemica, presso i Centri vaccinali o i Pediatri di Libera Scelta ed è offerta gratuitamente a tutti i neonati e lattanti nel primo anno di vita, previa somministrazione di un consenso/dissenso informato. Tale immunizzazione va proposta al neonato qualora le madri non siano già state sottoposte a vaccinazione per VRS durante la gravidanza.

«Nonostante la partenza un po’ disomogenea a macchia di leopardo, da regione a regione, i primi dati sulla copertura con questa profilassi sono incoraggianti. Regioni come Lombardia, Liguria e Toscana hanno raggiunto una copertura del 90% e oltre, con una riduzione dei casi e dei ricoveri che ci fa ben sperare per la prossima stagione epidemica. In Lombardia, ad esempio, gli accessi al pronto soccorso sono calati da 5.800 a 1.500 e i ricoveri da 2.350 a 600, mentre in Liguria si è registrata una riduzione dei casi dell’88% – continua Agosti -. Un recente studio ha dimostrato l’efficacia di protezione fino a 180 giorni. Dobbiamo, quindi, continuare lungo questo percorso virtuoso, attraverso una cabina di regia nazionale, includendo anche l’anticorpo monoclonale nel calendario vaccinale e rendendo disponibile questa preziosa forma di immunizzazione a tutti i neonati d’Italia, senza diseguaglianze».

CAMP 9 SIAARTI: a Firenze si inaugura il confronto sul futuro dell’anestesia

Si è aperto questa mattina, al Palazzo degli Affari di Firenze, il CAMP 9 – Congresso di Anestesia e Medicina Perioperatoria, promosso dalla Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), con una partecipazione record di oltre 700 professionisti tra iscritti e membri della faculty.

L’atmosfera è stata quella delle grandi occasioni, con l’aula plenaria gremita fin dalla lettura magistrale in memoria del professor Paolo Pelosi, a cui è stato dedicato un commosso e intenso tributo da parte della comunità scientifica.

Nel suo intervento di apertura, la Presidente SIAARTI, Elena Bignami, ha sottolineato il valore del Congresso come spazio di connessione tra le dimensioni clinica, tecnologica e umana della professione anestesiologica. «Oggi parliamo di futuro, ma con gli occhi ben aperti sul presente. L’anestesia è un campo in continua evoluzione e il nostro ruolo, nella medicina perioperatoria, è diventato sempre più centrale nei percorsi di cura. In questi due giorni discuteremo come accompagnare questa trasformazione con competenza, consapevolezza e visione».

Il titolo scelto per il congresso – Verso il futuro dell’anestesia – si è rivelato perfettamente in linea con il respiro internazionale e l’ambizione progettuale dei contenuti. Il programma affronta infatti alcune delle sfide più avanzate della disciplina, come l’introduzione dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali, l’impiego di wearable devices nel post-operatorio, l’uso della telemedicina nei setting chirurgici, ma anche l’anestesia sostenibile e la riduzione dell’impatto ambientale delle pratiche cliniche. Il tutto con un’attenzione costante alla sicurezza del paziente e all’appropriatezza terapeutica, in particolare attraverso l’approfondimento delle strategie di antimicrobial stewardship.

Edoardo De Robertis, Responsabile dell’Area culturale Anestesia e Medicina Perioperatoria SIAARTI, ha sottolineato nel suo intervento che il CAMP 9 rappresenta un vero punto di riferimento per la medicina perioperatoria italiana. «Mai come oggi la nostra disciplina è stata chiamata a integrare conoscenze scientifiche avanzate, competenze tecnologiche e sensibilità clinica. Abbiamo superato le 600 iscrizioni già nei giorni precedenti all’apertura, e questo è un segnale chiarissimo: c’è un bisogno reale di confronto, di aggiornamento e di costruzione di un pensiero condiviso sull’anestesia del futuro».

Molti i temi in discussione durante le sessioni di oggi: dall’ottimizzazione della gittata cardiaca e del flusso ematico durante l’intervento chirurgico, alla green anesthesia, dalla gestione del dolore post-operatorio nei contesti più vulnerabili, come i bambini e gli anziani, fino al monitoraggio emodinamico proattivo e personalizzato. Ampio spazio è stato dedicato anche alla formazione avanzata, con workshop su tematiche altamente pratiche come la gestione della via aerea difficile, la normotermia intraoperatoria, la sicurezza nella somministrazione dei farmaci e la costruzione di un’anestesia low-impact.

«Il Congresso è molto più di una sequenza di sessioni scientifiche. È una piattaforma culturale in cui si alimentano nuove idee, si consolidano esperienze cliniche e si immaginano percorsi condivisi – ha dichiarato Franco Marinangeli, Responsabile del Comitato Congressi SIAARTI -. I contenuti che affronteremo in questi due giorni riflettono il dinamismo della nostra disciplina e la sua capacità di essere protagonista nelle decisioni sanitarie a livello sistemico».

A ribadire il legame tra formazione, innovazione e cura del paziente, anche il contributo di Stefano Romagnoli, Direttore del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze e Responsabile del Comitato Formazione SIAARTI, che ha ricordato come «il compito della Società scientifica sia quello di guidare e sostenere l’evoluzione professionale dei clinici, offrendo occasioni di aggiornamento che siano anche opportunità per interrogarsi sul senso della nostra pratica quotidiana. Dobbiamo formare anestesisti capaci di pensare in modo critico, ma anche di agire in modo sostenibile e sicuro».

Il CAMP 9 proseguirà fino a venerdì 18 aprile, con un programma articolato in plenarie, workshop a numero chiuso, sessioni “Meet the expert” e tavole rotonde su temi di interesse strategico.

L’allarme degli epatologi: il fegato si ammala in silenzio, ma può essere salvato anche a tavola

Le malattie di fegato rappresentano una vera emergenza sanitaria globale: 1,5 miliardi di persone nel mondo vivono con una malattia epatica cronica e ogni anno si perdono 2 milioni di vite per questa causa. Oltre alle patologie epatiche correlate ai virus e all’alcol, è sempre più diffusa la malattia del fegato causata dalla disfunzione metabolica e pertanto associata anche a scorretti stili di vita.

Le malattie epatiche, infatti, possono rimanere a lungo latenti, prima di degenerare in cirrosi ed epatocarcinoma. Dietro a questa epidemia silenziosa c’è spesso una cattiva alimentazione. Ecco perché la Giornata Mondiale del Fegato 2025, che si celebra il 19 aprile, lancia un messaggio forte con lo slogan di quest’anno: “Il cibo è medicina”. L’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato si conferma in prima linea nell’adesione a questa iniziativa.

Il ruolo dell’alimentazione

Cibi ultra-processati, zuccheri aggiunti, porzioni esagerate, consumo eccessivo di carne rossa e grassi saturi, oltre all’eccessivo consumo di alcol, stanno compromettendo la salute di milioni di persone. Il fegato – che regola oltre 500 funzioni vitali, dalla detossificazione alla digestione – è spesso la prima vittima. Una delle patologie in rapida crescita è la MASLD (Malattia Epatica Steatosica Associata a Disfunzione Metabolica), strettamente collegata a obesità, diabete e dislipidemie. Spesso non dà sintomi nelle fasi iniziali, ma può evolvere in cirrosi e tumore epatico.

È possibile diagnosticarla precocemente con una semplice ecografia epatica. Se diagnosticata, è possibile invertire i danni epatici nelle fasi iniziali con un’alimentazione equilibrata e un corretto stile di vita. Una dieta ricca di verdura, frutta, cereali integrali, proteine magre e grassi “buoni”, come quella mediterranea, può ridurre il grasso nel fegato, contrastare l’infiammazione, prevenire il peggioramento della malattia, migliorare la sensibilità insulinica. Perdere anche solo il 5-10% del peso corporeo può fare la differenza tra un fegato malato e uno in via di guarigione.

«Il fegato è un organo straordinario e grazie alla sua capacità di rigenerarsi – sottolinea Giacomo Germani, Segretario AISF – È possibile, con le giuste scelte alimentari, proteggerlo e persino invertire certi danni. Mangiare “bene” per il fegato, significa privilegiare alimenti freschi e naturali come frutta e verdura di stagione, cereali integrali, legumi, pesce, olio extravergine d’oliva. Limitare gli zuccheri semplici, cibi processati e le bevande zuccherate. Senza dimenticare i danni che può provocare l’alcol. Serve equilibrio, varietà e costanza. E magari, ogni tanto, fermarsi a pensare a cosa stiamo dando al nostro corpo e al nostro fegato».

I messaggi del World Liver Day

La Giornata Mondiale del Fegato è un’iniziativa guidata dall’Associazione europea per lo studio del fegato (EASL), dall’Associazione asiatica del Pacifico per lo studio del fegato (APASL), dall’Associazione americana per lo studio delle malattie del fegato (AASLD), dall’Asociacion Latinoamericana para el Estudio del Higado (ALEH) e la Society on Liver Disease in Africa (SOLDA), sotto l’egida della Coalizione Healthy Livers, Healthy Lives. La campagna di quest’anno mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul ruolo vitale del fegato e sull’importanza di adottare uno stile di vita sano a partire dalla corretta alimentazione, che può anche rendere reversibili alcune patologie. Per questo, la Giornata Mondiale del Fegato invita non solo le persone a cambiare il proprio stile di vita, ma si rivolge anche alle istituzioni affinché impongano etichette trasparenti, limitazioni ai cibi spazzatura, mense scolastiche sane, educazione nutrizionale nelle scuole.

Giacomo Germani

«Il World Liver Day nasce per accendere i riflettori su un organo che merita più attenzione, e per sensibilizzare sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce delle malattie epatiche – evidenzia Germani– Il fegato è uno degli organi più importanti del nostro corpo, eppure è anche uno dei più sottovalutati. Ogni giorno lavora in silenzio, senza che ce ne accorgiamo: filtra tossine, aiuta la digestione, regola il metabolismo, produce proteine vitali e molto altro ancora. Oggi è il momento giusto per iniziare a prenderci cura del nostro fegato».

Dati, AI e connessioni internazionali: così gli IRCCS guidano l’innovazione

Gli IRCCS sono di fronte ad una trasformazione guidata dall’innovazione tecnologica. Lo sforzo di digitalizzazione e innovazione, missione 1 del PNRR, assume una valenza particolare in sanità e può essere considerato uno dei fattori strategici per il settore. Trasformazione digitale e valorizzazione dei Big Data sono due obiettivi irrinunciabili del PNRR e devono trovare adeguata implementazione in fase attuativa: servono investimenti in competenze, tecnologie e strumenti di change management.

Basti pensare che il settore sanitario è la prima fonte per la generazione di dati a livello mondiale, generando il 30% del volume globale, con un tasso di crescita previsto del 36% entro il 2025. Digitalizzazione, intelligenza artificiale e internazionalizzazione sono quindi le vere sfide e anche opportunità imminenti che gli IRCCS non possono lasciarsi sfuggire.

Carlo Nicora, già Direttore Generale della Fondazione Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e Vicepresidente di FIASO (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere), ci spiega queste complessità.

Carlo Nicora

Partiamo dalla “logica dei silos” all’interno degli IRCCS. Quali strategie per migliorare e condividere i dati in ambito della ricerca?

«La soluzione è chiara: costruire un sistema di rete. Gli IRCCS devono sviluppare infrastrutture che permettano la condivisione dei dati, cosa possibile nel rispetto della normativa, in maniera anonima e sintetica. Per gli IRCCS è necessario che la trasformazione digitale non sia una “semplice” informatizzazione dei processi, ma un reale ripensamento di come le attività di ricerca e cura vengono fruiti da cittadini e pazienti ed erogati dai professionisti sanitari. Si tratta quindi di partire dai bisogni dei pazienti, dei professionisti e dei ricercatori, investendo tempo e competenze nella riprogettazione dei modelli erogativi di ricerca e soprattutto, promuovendo una maggiore diffusione delle competenze digitali tra gli operatori del SSN. 

Le capacità predittive abilitate da una sanità data-driven permettono di avere una più efficace ed efficiente allocazione delle risorse, con un controllo delle tecnologie utilizzate e delle terapie messe in atto, nonché una maggiore qualità ed efficacia dei servizi erogati. Questo, per le strutture sanitarie e ospedaliere, significa potersi basare sulla previsione dei possibili ricoveri futuri per effettuare una più precisa programmazione, riuscendo così a predisporre persone e turni per occuparsi in modo adeguato dei pazienti. L’aumento delle capacità decisionali che la sanità digitale consente è uno dei fattori che più influisce sulla possibilità di incrementare la qualità e l’efficacia dell’assistenza sanitaria.

Per gli IRCCS, la trasformazione digitale deve ripensare profondamente l’esperienza di cura e ricerca, non solo informatizzare i processi

Una maggior diffusione di strumenti digitali comporterà per gli IRCCS la necessità di rimanere al passo per quanto attiene la Cartella Clinica Elettronica (CCE), il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), il Centro Unico di Prenotazione (CUP) come Hub di gestione e monitoraggio, la Telemedicina, l’Internet of Medical Thing (IoMT) usando dispositivi che permettono il monitoraggio della salute da remoto e l’uso di procedure digitali di case management consentendo di attivare la home delivery del farmaco e il modello della Connected Care alla base di una sanità digitale interconnessa sia a livello regionale sia nazionale, che pone l’obiettivo di collegare il paziente con il personale sanitario coinvolto nell’intero percorso di cura.

La diffusione delle soluzioni digitali consentirà sempre più di generare una grande quantità di dati. La loro valorizzazione rappresenta la sfida principale del nostro sistema sanitario per i prossimi anni e deve essere giocata sia a livello di programmazione del SSN che a livello di singola azienda/istituto per migliorare la cura al paziente e renderla il più possibile personalizzata e per ampliare la capacità di ricerca. Per farlo devono essere affrontati e risolti alcuni aspetti, sul tavolo ormai da tempo, che non garantiscono l’interoperabilità dei sistemi e rendono difficile l’integrazione dei dati e loro valorizzazione: serve definire standard di interoperabilità per integrare dati provenienti da fonti diversificate; è necessario riuscire ad adottare anagrafiche e codifiche comuni in tutto il Paese; devono essere diffusi protocolli che garantiscano la qualità del dato per intercettare alla fonte eventuali errori ed è fondamentale ridurre il tempo che intercorre tra la generazione del dato e la sua trasmissione».

Questo approccio di “sistema di rete” è già in fase di implementazione?

«In parte sì. Gli Istituti oncologici stanno cercando di costruire una rete oncologica, mentre gli Istituti cardiologici e neurologici sono già inseriti in reti europee. Un esempio interessante è quello dei tumori rari: dato il loro scarso numero, gli Istituti stanno costruendo sistemi regionali e nazionali che prevedono la circolazione dei dati. I dati sui sarcomi, per esempio, raccolti all’Istituto Nazionale dei Tumori, possono essere messi a disposizione di strutture italiane o estere per l’attività di ricerca».

Dati derivati da attività clinica creati da un finanziamento pubblico: ci illustra meglio questo concetto?

«È un punto fondamentale. Questi dati sono stati creati grazie a un finanziamento pubblico: il paziente viene curato in un Istituto pubblico grazie al finanziamento del Servizio sanitario nazionale e regionale. Una volta che il paziente torna a casa, nell’istituto rimangono i suoi dati, generati con risorse pubbliche. Perché questi dati, con tutte le cautele della privacy, non possono essere messi nel circuito della ricerca? Ciò aumenterebbe notevolmente le performance dei ricercatori».

Quindi i dati sono da considerare un “bene comune”?

«Esattamente. Una volta anonimizzato, il dato è un bene comune, e quel dato si è realizzato con un finanziamento pubblico. Se qualche struttura privata o del settore farmaceutico è interessata a questi dati, possiamo riconoscere il dovuto per il tempo e il lavoro impiegati per costruirli. Ma rimangono dati pubblici, derivanti da un’attività finanziata dal pubblico per curare i nostri pazienti».

C’è anche un vantaggio qualitativo in questo approccio, giusto?

«Le aziende farmaceutiche avrebbero la garanzia che quel dato è di qualità. Se un’azienda preferisce, potrà comprare dati dall’Istituto dei Tumori, dal Gemelli, dal Bambin Gesù di Roma o dal Cardarelli di Napoli invece che da Paesi dove la qualità potrebbe essere incerta, è perché sa che sta accedendo a dati affidabili, generati in un sistema controllato».

Una volta anonimizzato, il dato è un bene comune

Passiamo al tema dell’intelligenza artificiale. Molti modelli di AI, specialmente quelli basati sull’apprendimento profondo, sono considerati “scatole nere”, ovvero difficili da interpretare. Come conciliare questo limite con la necessità di trasparenza richiesta in ambito medico?

«È una domanda complessa e tecnica. Come manager sanitario, devo preoccuparmi quando introduco uno strumento di AI che aumenta la capacità di diagnosi, cura o previsione. Se lo strumento si è costruito sui dati che io ho inserito o su dati controllati derivati dalla letteratura, sono più tranquillo. Ma quando lo strumento evolve autonomamente, chi lo sviluppa deve definire i livelli di cautela e controllo necessari. L’intelligenza artificiale rappresenta una svolta importante, un vero e proprio salto generazionale con il quale non solo i ricercatori ed i medici, ma anche gli enti di ricerca devono convivere. L’integrazione dell’IA nei flussi di lavoro clinici esistenti, tuttavia può essere complessa e per supportarne l’implementazione su larga scala si rende necessaria un’infrastruttura tecnica robusta ed una formazione adeguata per i medici e ricercatori».

Può fare un esempio di utilizzo dell’AI nell’ambito della ricerca?

«Se sviluppo un software di ricerca in cui i ricercatori inseriscono linee guida e protocolli basati su conoscenze consolidate, so che quella macchina sarà più performante di un singolo medico grazie alla sua potenza di calcolo. Ma non va oltre ciò che le abbiamo insegnato. Diverso è il caso dell’AI generativa, con capacità di autoapprendimento. Su questo tema la Comunità Europea sta ponendo grande attenzione, soprattutto nell’ambito della salute con l’AI Act».

Un software basato su conoscenze consolidate è potente, ma limitato a ciò che gli insegniamo. Diverso è il caso della AI generativa

Parliamo di internazionalizzazione. Come possono muoversi gli IRCCS pubblici con la stessa agilità e capacità di competere degli IRCCS privati?

«È un auspicio che vorrei esprimere in positivo. I grandi Istituti pubblici hanno le potenzialità per essere competitivi a livello internazionale, anche se non sempre le sfruttano pienamente. Gli IRCCS rappresentano l’eccellenza della sanità italiana, non sono semplici ospedali, ma centri dove la ricerca scientifica si traduce direttamente in cure innovative per i pazienti. Uniscono prestazioni di alta specialità con ricerca clinica, traslazionale e biomedica all’avanguardia».

Può farci un esempio concreto di cosa significhi questa eccellenza in numeri?

«Prendiamo l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Nel 2023 ha attivato 141 progetti di ricerca, di cui 31 europei, pubblicato 835 studi scientifici, più di due al giorno, e gestito 764 studi clinici attivi. È significativo che solo il 15% dei finanziamenti provenga da fondi pubblici, mentre il resto arrivi da bandi internazionali vinti, donazioni private e 5xmille. Un ente pubblico che opera con l’efficienza di un privato».

Reti nazionali e internazionali per l’eccellenza anche nella cura…

«Chi fa ricerca ha già dentro di sé questa impostazione internazionale, altrimenti non pubblicherebbe su riviste internazionali o non parteciperebbe a congressi. La sfida è trasferire questo approccio metodologico anche nella cura. L’unica possibilità è costruire reti di collaborazione regionali, nazionali e internazionali. L’Istituto Nazionale dei Tumori, ad esempio, è inserito in una rete di otto grandi istituti europei. Oggi la capacità di curare i pazienti con prestazioni di ricovero e cura di alta specialità, fare ricerca clinica, traslazionale, biomedica e organizzativa ed essere protagonisti nell’attività di ricerca scientifica internazionale obbliga a lavorare in rete, che è anche tra gli obiettivi principali della riforma degli IRCCS. La nuova legge permette di includere nelle reti anche altri enti del SSN, come l’Università. Si tratta di una possibilità che prima non era declinata a livello legislativo con il vantaggio che essere aggregati in una rete permette di partecipare a programmi di ricerca a lungo termine con un assetto e una composizione dei partecipanti stabile, superando la collaborazione a tempo dettata da finanziamenti ad hoc, che quando si esauriscono portano spesso alla fine della collaborazione stessa. Inoltre, ha definito in maniera forte il ruolo delle reti di patologie, con la condivisione non solo di competenze, ma anche di attrezzature, con la finalità di realizzare laboratori virtuali distribuiti sul territorio nazionale che cercano di operare in modo integrato, con la necessità di un approccio in rete geografica».

La nuova legge permette di includere nelle reti anche altri enti del SSN, come l’Università

Questo potrebbe anche contribuire a ridurre le disuguaglianze nell’accesso alle cure?

«Certamente. Le differenze nell’accesso ai farmaci innovativi tra le regioni in Italia sono eclatanti, così come tra i diversi Stati europei. Lo Stato nazionale deve cercare di normalizzare le disparità tra le sue regioni, e l’Unione Europea dovrebbe fare lo stesso con i suoi Stati membri, sebbene ci siano differenze nelle politiche del farmaco nazionali che rendono questo processo complesso».

In conclusione, quali sono le prospettive future per gli IRCCS italiani?

«Il sistema degli IRCCS sta diventando un polo di attrazione inevitabile per chi vuole studiare, ricercare e guarire. La concentrazione di risorse, con logiche di rete e competizione, deve consentire ulteriormente di alimentare la ricerca e di creare un sistema tra tutti i centri che si sono guadagnati un ruolo di primo piano in Italia e nel mondo. Per molti è una sorpresa che il nostro Paese, quasi senza volerlo e senza neppure essersene accorto, con la rete degli IRCCS si è dotato di un sistema combinato di ricerca e cura unico al mondo. Una eccellenza che deve battersi ogni giorno con mille problemi di strutture, burocrazia e soprattutto di finanziamenti. Ma l’esempio di tanti IRCCS pubblici e privati è lì a dimostrare che tutto è possibile, cioè anche battere tumori, malattie neurodegenerative, cardiologiche, malattie rare con mezzi di gran lunga inferiori a centri scientifici di altri Paesi, in una lotta ancora lontana dall’essere vinta ma che ogni anno in Italia fa registrare qualche importante successo in più».

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Obesità, nasce FIAO, la federazione delle associazioni di pazienti: «Riconoscerla pienamente come malattia»

Far sentire la voce dei pazienti, tutelarne i diritti e contribuire fattivamente al dibattito per il contrasto all’obesità, quale emergenza prioritaria del Sistema Sanitario. È questo l’obiettivo di FIAO – Federazione Italiana Associazioni Obesità, che nasce oggi, presentata a Roma in una conferenza stampa, come alleanza che riunisce sette associazioni di pazienti a livello nazionale già impegnate nell’ambito dell’obesità: Amici Obesi Onlus, La Mattina dopo Odv, MPO – Mai più obesi, Giro di boa Aps, SMALL, ASCOP Onlus, Fiocchetto Verde Odv.

Un evento che rappresenta una svolta importante nello scenario del contrasto all’obesità nel nostro Paese, convogliando in un unico soggetto l’impegno di sette realtà rappresentative dei pazienti per meglio incidere, ottimizzare le sinergie e rappresentare con maggiore forza e autorevolezza le persone con obesità nel confronto con i decisori, le istituzioni, il mondo medico-scientifico. Presidente della nuova Federazione è Iris Zani, Presidente di Amici Obesi Onlus, Vicepresidente è Eligio Linoci, Presidente di La Mattina dopo Odv. L’evento di presentazione della FIAO è realizzato con il contributo non condizionato di Novo Nordisk.

L’obesità è una malattia cronica progressiva e recidivante, che in Italia riguarda circa il 12% della popolazione, ovvero circa 6 milioni di persone. A questi si aggiunge circa un altro 40% della popolazione con sovrappeso, il che significa che nel nostro Paese un problema di peso riguarda oltre la metà degli adulti. Circa il 30% dei bambini in Italia ha un problema di sovrappeso o obesità. Uno scenario che, nel suo complesso e nelle sue implicazioni, rappresenta una delle grandi sfide del nostro Sistema Sanitario, anche alla luce della possibilità concreta che ha oggi l’Italia di avere la prima legge al mondo dedicata all’obesità, grazie alla proposta di legge n.741 della XIX Legislatura “Disposizioni per la prevenzione e la cura dell’obesità” di iniziativa dell’On. Roberto Pella, la cui votazione in Aula alla Camera è prevista a breve, con l’auspicio che presto il suo iter di approvazione, anche con il voto al Senato, possa essere portato a termine.

«FIAO, nel dare voce ai pazienti, intende promuovere una corretta informazione sull’obesità e sensibilizzare le istituzioni, e la comunità tutta, sul suo riconoscimento come malattia – dichiara Iris Zani, Presidente FIAO e Presidente di Amici Obesi Onlus –. Scopo di FIAO è accompagnare e supportare le persone lungo il loro percorso, offrendo assistenza, orientamento e sensibilizzazione su una malattia complessa e troppo spesso sottovalutata, sottolineando l’importanza di un approccio multidisciplinare, da un lato, e della condivisione di esperienze, dall’altro, per migliorare la qualità di vita di chi vive con questa malattia. In questo scenario l’approvazione di una legge, la prima al mondo, che riguarda la salute delle persone che vivono con obesità rappresenta un passaggio molto importante per lanciare finalmente un chiaro messaggio a tutela di queste persone, quello cioè che non si tratta di un atteggiamento sbagliato nei confronti del cibo, né di una condizione di esclusiva responsabilità del paziente, ma di una malattia che, come tale, va affrontata. Attendiamo il voto in Aula alla Camera dei Deputati, e come FIAO auspichiamo l’approvazione della legge per far sì che le persone con obesità in Italia siano le prime a poter beneficiare di tutto ciò che una legge come questa porterà in termini di diritti e accesso. Ci auguriamo inoltre che altrettanto celermente prosegua il percorso verso il riconoscimento dell’obesità come malattia cronica attraverso l’approvazione del nuovo Piano Nazionale Cronicità».

«Attraverso questa nuova federazione, le associazioni riunite intendono creare una rete solida e inclusiva per diffondere consapevolezza, abbattere i pregiudizi e favorire un accesso equo alle cure – dichiara Eligio Linoci, Vicepresidente FIAO e Presidente di La Mattina dopo Odv -. FIAO promuove ogni azione intesa a migliorare la qualità di vita della persona con obesità, al fine di garantire il più agevole accesso alle prestazioni assistenziali, sanitarie e sociali, si propone come organizzazione costantemente impegnata sulla prevenzione e l’educazione sanitaria, nella tutela delle persone con obesità nella loro vita lavorativa, e opera concretamente per sensibilizzare l’opinione pubblica promuovendo sul piano sociale e sanitario i diritti della persona con obesità. Per realizzare tutto questo – conclude Linoci – è importante che ci sia un impegno condiviso da parte di tutti i soggetti coinvolti – istituzioni, mondo scientifico, realtà dell’associazionismo e soggetti privati».

«L’obesità rappresenta un’emergenza globale, che interessa fortemente anche il nostro Paese, e che richiede l’attivazione di percorsi concreti per contrastarla e prevenirla – dichiara l’On. Roberto Pella, Presidente Intergruppo Parlamentare “Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili” -. In questo scenario, è un segno importante la nascita di un nuovo soggetto autorevolmente rappresentativo dei pazienti, un interlocutore fondamentale per le istituzioni, quale FIAO. Riconoscere l’obesità come una vera e propria malattia e affrontarla come una priorità nazionale è il principale contenuto della proposta di legge a mia prima firma, che auspichiamo potrà presto, con la sua approvazione da entrambe le Camere, dare all’Italia la prima legge al mondo mirata sull’obesità, facendo del nostro Paese un modello virtuoso a livello internazionale».

«Il riconoscimento dell’obesità come una malattia cronica e recidivante è un aspetto fondamentale nel contrasto a questa emergenza, che richiede il pieno supporto da parte della società e della politica – dichiara Andrea Lenzi, Presidente Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita della Presidenza del consiglio dei ministri, membro della Cabina di Regia Piano Nazionale della Cronicità -. La governance a livello globale, di Paese e città è importante, ma di solito è frammentaria, spesso focalizzata sulla scelta individuale e incapace a prendere le distanze da obiettivi politici a breve termine, motivo per cui è necessario lavorare insieme per cambiare percorso nel contrasto a questa malattia. Il ruolo delle associazioni dei pazienti è oggi sempre più importante: non solo assistono gli associati, ma dialogano come interlocutori fondamentali con il mondo dei medici e delle istituzioni. La nascita di una federazione come FIAO che unisce autorevolmente le associazioni di persone con obesità rappresenta una novità molto importante e una spinta ulteriore ad agire nella giusta direzione».

Alcohol Prevention Day 2025: nel 2023 8 milioni di consumatori a rischio in Italia

Nel 2023, in Italia, non si registra alcuna delle attese riduzioni dei comportamenti a rischio legate all’uso di alcol. Stabili i consumatori a rischio, soprattutto tra i target più vulnerabili della popolazione: i minori, i giovani, le donne, gli anziani. Il bere per ubriacarsi (binge drinking), diffuso tra tutte le fasce di popolazione, non risparmia gli anziani, tra i quali, peraltro, si registrano le più elevate frequenze di consumatori dannosi con disturbi da uso di alcol non intercettati dal Servizio Sanitario Nazionale. I consumi fuori pasto risultano in costante aumento in particolare tra le donne (23,9%) tra le quali sono 1 milione e 230 mila le consumatrici che bevono per ubriacarsi. In ripresa l’incremento della mortalità totalmente attribuibile all’alcol lì dove era attesa una riduzione, registrata soprattutto per le classi di età produttive per entrambi i sessi.

Nel 2023, circa 8 milioni di italiani di età superiore a 11 anni (pari al 21,2% dei maschi e al 9,2% delle femmine) hanno bevuto quantità di alcol tali da esporre la propria salute a rischio. Quattro milioni e 130 mila persone hanno bevuto per ubriacarsi e 780.000 sono stati i consumatori dannosi, coloro cioè che hanno consumato alcol provocando un danno alla loro salute, a livello fisico o mentale.

Rimane distante il raggiungimento degli Obiettivi di Salute Sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. A scattare la fotografia è, come ogni anno, l’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, ONA-ISS, che ha rielaborato attraverso il Sisma (Sistema di Monitoraggio Alcol-DPCM 3/3/20217), i dati della Multiscopo Istat, in occasione dell’Alcohol Prevention Day (Apd). I dati sono stati presentati il 16 aprile, nel corso dell’annuale workshop internazionale in programma presso l’ISS.

«I consumi di alcol in Italia evidenziano una situazione consolidata e preoccupante di tutti gli indicatori monitorati di danno e di rischio, dilagante nelle fasce più vulnerabili della popolazione: minori, adolescenti, donne e anziani – afferma Emanuele Scafato, Direttore dell’ONA-ISS -. La prevenzione nazionale e regionale, la più efficace possibile, è possibile se si mira ai target principali. È necessario innalzare l’attenzione per i giovani, i minori in particolare, prevedendo maggiori tutele nei luoghi di aggregazione e l’educazione alla salute nelle scuole. È dimostrato che è efficace investire in prevenzione e attivare l’intercettazione precoce dei consumatori a rischio, specialmente con interventi differenziati per donne e anziani, favorendo il counselling e l’intervento motivazionale. Occorre assicurare adeguate risorse per le reti curanti e l’applicazione delle linee guida per i disturbi da uso di alcol che l’ISS ha reso disponibili alle strutture del SSN per la cura dei consumatori con danno o alcoldipendenti, pazienti clinici a tutti gli effetti in necessità di trattamento. Occorre favorire un incremento della consapevolezza sui rischi derivanti dall’uso di alcol a sostegno delle persone, delle famiglie e in osservanza degli obiettivi delle strategie delle Nazioni Unite, che non abbiamo raggiunto nel 2025, ma in cui siamo impegnati per il 2030».

Il quadro delineato dal comportamento dei 36 milioni di consumatori di alcol in Italia, pari al 77,5% dei maschi e al 57,6% delle femmine – presenta luci e molte ombre. Tra i consumatori a rischio, preoccupano soprattutto i giovani (circa 1.260.000 tra gli 11 e 24 anni, di cui 615.000 minorenni) e le donne (circa 2,5 milioni, con il 13,3% di consumatrici a rischio tra le minorenni 11-17enni).

Spiccano i 4,13 milioni di binge drinker (74.000 sono minori) il cui andamento negli ultimi 10 anni mostra un aumento dell’80% nelle femmine, passando dal 2,5% nel 2013 al 4,5% nel 2023; anche i maschi vedono un incremento del 19% tra il 2019 e il 2023 senza alcun accenno all’atteso calo dei consumi tesi all’intossicazione. Dei 780.000 consumatori dannosi, clinicamente pazienti con Disturbi da Uso di Alcol (DUA), 310.000 sono donne. Tutti i consumatori dannosi sono in necessità di essere presi in carico, mentre lo sono solo l’8,1%, non essendo il 91,9% dei consumatori dannosi “in need for treatment” mai intercettati dal SSN.

Pubblicato il rapporto annuale 2024 del Centro Studi Egualia sull’uso dei farmaci equivalenti

Diabete Tipo 2, BPCO, epilessia: è in queste tre aree che si concentrano le scadenze brevettuali in pista tra il 2025 e il 2029. Si tratta di 21 molecole (di sintesi chimica) che andranno ad incrementare il mercato complessivo dell’off patent e quasi certamente anche il mercato dei generici-equivalenti. A disegnare la prospettiva di una crescita, seppur contenuta, del mercato off patent è la società Newline RDM in un forecast realizzato per il rapporto annuale del Centro Studi di Egualia, che tiene conto tra l’altro della riclassificazione di specifiche categorie di farmaci, come le gliptine, prima classe di farmaci passata dal regime A-PHT alla classe A.  

«Nei prossimi due anni il mercato dell’off patent vedrà una crescita, seppur contenuta, in termini di confezioni alla quale contribuiranno le principali scadenze brevettuali – conferma Elena Folpini (Managing Director New Line RDM) –.  Al contempo, il farmaco equivalente continuerà gradualmente ad aumentare la sua penetrazione, con una crescita di 0,74 punti quota nel mercato off patent dal 2024 al 2026 (grafico1). A questa crescita contribuiranno maggiormente l’area del sistema cardiovascolare, in particolare con i farmaci regolatori dei lipidi in associazione, coi betabloccanti, e con gli antagonisti dell’angiotensina in associazione, e l’area del sistema nervoso, dove gli antidepressivi e gli stabilizzatori dell’umore registreranno una domanda sempre più crescente».

Una previsione che rispecchia i trend illustrati nel Rapporto annuale realizzato dal Centro Studi di Egualia sui dati del mercato dei generici-equivalenti nel 2024, che rivela un outlook di sostanziale stabilità rispetto al 2023, con un giro d’affari da 1,7 miliardi di euro e un totale di 422 milioni di confezioni vendute nel canale farmacia, l’89% in Classe A, totalmente rimborsate dal Ssn, dove si concentra l’82% del giro d’affari del comparto.

In particolare nel 2024, nel canale delle farmacie aperte al pubblico, i generici-equivalenti hanno rappresentato il 23,3% del totale del mercato a confezioni e il 15,8% del mercato a valori. Su un totale di 1,8 miliardi di confezioni di farmaci venduti in farmacia i generici-equivalenti rappresentano il 20,8% delle vendite in classe A, il 2,2% in classe C e appena lo 0,3% nell’area dell’automedicazione.

I generici-equivalenti quotano il 23,3% del totale del mercato farmaceutico a volumi, mentre i brand a brevetto scaduto, quotano il 64,2%. I farmaci esclusivi (protetti o senza generico corrispondente) assorbono invece l’altro 12,5% del mercato complessivo (grafico 2).

Il divario Nord-Sud dei consumi regionali

Per quanto riguarda il mercato dei farmaci rimborsati di Classe A, il ricorso alle cure equivalenti continua ad essere privilegiato al Nord (40,4% a unità e 34,4% a valori), rispetto al Centro (29,5% e 26,9%) e al Sud (24,3% e 22,1%), a fronte di una media Italia del 32,6% a confezioni e del 28,8% a valori (grafico 3). In una Italia in cui il rimborsato SSN è per l’86% rappresentato da farmaci off patent il peso degli equivalenti varia ancora in modo rilevante da Regione a Regione: l’incidenza maggiore dei “senza marca” si registra a Trento (45,3%), in Lombardia (42,5%), in Piemonte (40,9%); il minor ricorso ai generici-equivalenti si registra invece in Basilicata (23,3%), Calabria (22,1%), Campania (21,8%).

E proprio nelle Regioni del Sud è più elevato il tributo che i cittadini scelgono diversare di tasca propria per ritirare il brand off patent, più costoso, invece che il generico-equivalente a minor costo, interamente rimborsato dal SSN: nel 2024 i cittadini hanno speso questo scopo ben 1.034 milioni di euro di differenziale.  

L’incidenza maggiore nel Lazio (16,3% della spesa regionale SSN nel canale retail) e in Molise (15,8%); quella più bassa in Lombardia (10,5%) (grafico 4).  

In ospedale off patent il 65% delle cure

Per quanto riguarda i consumi in ospedale, nel 2004 il 65% delle cure somministrate in corsia afferisce all’area dei farmaci fuori brevetto: gli equivalenti hanno assorbito il 36,5% del mercato a volumi (+3% sul 2023), i farmaci esclusivi – sotto brevetto o privi di generico corrispondente – hanno assorbito il 34,9% (+0,2% rispetto al 2023), mentre la restante quota è stata assorbita dai brand a brevetto scaduto, che hanno concentrato il 28,6% (-3,2% rispetto al 2023) dei consumi in corsia.

L’analisi del mercato a valori continua a registrare la predominanza assoluta dei prodotti in esclusiva, che totalizzano il 93,3% (vs 92,4 del 2023) del giro d’affari farmaceutico nel canale ospedaliero, contro il 4,7% (vs 5,3% del 2023) dei brand a brevetto scaduto e il 2,1% (vs 2,3 del 2023) dei generici-equivalenti.

«Il servizio sanitario pubblico trae un enorme vantaggio dalla presenza sul mercato dei nostri prodotti: la concorrenza generata dagli equivalenti dal 2012 a oggi ha generato – in termini di minore spesa per l’SSN – risparmi superiori ai 6 miliardi di euro. Ssn e cittadini potrebbero ulteriormente beneficiarne se tutte le Regioni incrementassero sia l’uso dei farmaci fuori brevetto che quello dei farmaci equivalenti – commenta Riccardo Zagaria, vicepresidente di Egualia con delega al Centro Studi -. In prospettiva  il nuovo assetto della categoria delle glifozine (diabete) con il passaggio al canale della farmaceutica territoriale sarà un elemento di sviluppo futuro per gli equivalenti, ma solo dal 2028».

«La Legge di Bilancio 2024 che ha previsto che i farmaci devono essere erogati nel luogo più vicino al paziente, rappresenta senz’altro un quadro di omogenizzazione importante a livello regionale. Su questo fronte c’è però molto da fare per ristabilire un equilibrio rispetto al passato perché c’è una parte di questa stessa legge al momento inattuata: è quella che prevede l’individuazione dell’elenco vincolante dei medicinali del PHT non coperti da brevetto che possono essere dispensati in regime convenzionale attraverso le farmacie aperte al pubblico. È necessario – conclude Zagaria – che il tavolo di lavoro su questa tema si apra al confronto anche con l’industria off patent, per ragionare su molte altre categorie dove si potrebbe intervenire per agevolare l’accesso ai pazienti».

GIMBE, il documento di finanza pubblica prevede timidi segnali di crescita, ma il SSN resta largamente sottofinanziato

«Si intravede una lieve crescita della spesa sanitaria, ma si tratta di stime previsionali che non modificano la sostanza: la quota di ricchezza nazionale destinata alla sanità, già insufficiente, resta invariata nei prossimi anni, confermando il cronico sottofinanziamento del Servizio Sanitario Nazionale». Così Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, commenta i dati sulla spesa sanitaria contenuti nel Documento di Finanza Pubblica (DFP) approvato lo scorso 9 aprile dal Consiglio dei Ministri e incentrato sulla verifica dei risultati conseguiti nell’attuazione del Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine (PSBMT) 2025-2029, deliberato lo scorso 27 settembre.

«Al fine di offrire dati oggettivi utili al confronto politico e al dibattito pubblico, evitando ogni strumentalizzazione – spiega Cartabellotta – la Fondazione GIMBE ha condotto analisi indipendenti sulla spesa sanitaria sul DFP 2025, includendo anche un confronto con le stime contenute nel PSBMT». Le analisi riguardano il consuntivo 2024, le previsioni per il 2025 e per il biennio 2026-2027. Per il 2028, pur rientrando nel triennio di riferimento della prossima Legge di Bilancio (2026-2028), il DFP si limita a fornire indicazioni descrittive, senza riportare le stime di dettaglio nelle tabelle analitiche (Tabella 1).

Stime PIL reale

Secondo quanto riportato nel DFP, l’aumento consuntivo del PIL per il 2024 è inferiore di 0,3 punti percentuali rispetto alle previsioni del PSBMT (0,7% vs 1,0%). Per il 2025, la stima di crescita del PIL si dimezza: il DFP prevede un +0,6%, a fronte dell’1,2% previsto dal PSBMT (-0,6 punti percentuali). Per il 2026, il DFP stima un incremento dello 0,8%, inferiore di 0,3 punti percentuali rispetto all’1,1% del PSBMT. Per il 2027, invece, le due previsioni risultano allineate (+0,8%) (Tabella 2).

«Le stime del PIL in termini reali – commenta il Presidente – restituiscono prospettive di crescita economica riviste nettamente al ribasso a soli sette mesi di distanza e, soprattutto, gravate da forti incertezze legate al piano di riarmo europeo e alle politiche sui dazi degli Stati Uniti».

Spesa sanitaria

Di seguito sono riportati i dati consuntivi per il 2024 e le stime per l’anno 2025 e il triennio 2026-2028 (Tabella 3).

Consuntivo 2024. Il DFP 2025 certifica, per l’anno 2024, un rapporto spesa sanitaria/PIL pari al 6,3%, in lieve aumento rispetto al 2023 (+0,1 punti percentuali). La spesa sanitaria ammonta a € 138.335 milioni, con una crescita del 4,9% rispetto ai € 131.842 milioni del 2023.  «Tuttavia – osserva Cartabellotta – l’incremento di € 6.493 milioni tra il 2023 e il 2024 è dovuto per oltre la metà (€ 3.257 milioni) alla spesa per il personale dipendente. Un aumento in gran parte riconducibile agli oneri accantonati per i rinnovi contrattuali del personale sanitario relativi al triennio 2022-2024».

Previsionale 2025 e 2026-2028. Nel 2025, il rapporto spesa sanitaria/PIL è stimato al 6,4%, in lieve aumento rispetto al 6,3% del 2024. In termini assoluti, la spesa sanitaria prevista ammonta a € 143.372 milioni, con un incremento di € 5.037 milioni (+3,6%) rispetto all’anno precedente. Per il biennio 2026-2027, a fronte di una crescita media annua del PIL nominale del 2,75%, il DFP 2025 prevede un incremento medio della spesa sanitaria del 2,85% l’anno, mantenendo invariato il rapporto spesa sanitaria/PIL al 6,4%. In valore assoluto, la spesa sanitaria sale a € 149.820 milioni nel 2026 (+4,5% rispetto al 2025) e a € 151.635 milioni nel 2027 (+1,2% rispetto al 2026). Per il 2028, il DFP stima un ulteriore incremento della spesa del 2,6% rispetto al 2027, con il rapporto spesa sanitaria/PIL ancora fermo al 6,4%.

«Se da un lato le previsioni per il triennio 2025-2028 indicano un rapporto spesa sanitaria/PIL sostanzialmente stabile – commenta il Presidente – dall’altro non si possono escludere riduzioni effettive della spesa sanitaria, alla luce della stagnazione economica e delle incertezze legate al contesto macroeconomico globale. In quest’ottica appaiono azzardate le stime di un aumento della spesa di € 5.037 milioni nel 2025 e di ulteriori € 6.448 milioni nel 2026, considerando che il Fabbisogno Sanitario Nazionale fissato dalla Legge di Bilancio 2025 è pari a € 136.533 milioni per il 2025 e € 140.533 milioni per il 2026».

Differenza tra le stime del DFP e quelle del PSBMT. Rispetto alle previsioni del PSBMT approvato a settembre, le stime sulla spesa sanitaria contenute nel DFP 2025 risultano superiori sia in termini di rapporto spesa sanitaria/PIL, sia in valore assoluto. «Un dato che – commenta Cartabellotta – rappresenta un timido segnale di apertura da parte dell’Esecutivo per scongiurare ulteriori tagli alla sanità, alla luce del peggioramento del quadro economico generale».

Riforme

A completamento della prossima Legge di Bilancio, il DFP 2025 indica 32 provvedimenti collegati, tra cui due direttamente riferiti alla sanità: la “Riorganizzazione e potenziamento dell’assistenza territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza ospedaliera” e la “Delega in materia di riordino delle professioni sanitarie e degli enti vigilati dal Ministero della Salute”. «Indubbiamente – chiosa il Presidente – le riforme affrontano i nodi strutturali più critici, ma la riorganizzazione dell’assistenza territoriale è fortemente condizionata dalla gravissima carenza di personale infermieristico e da un ruolo del medico di famiglia ancora non ben definito. Inoltre, al di là del “riordino” delle professioni sanitarie, la vera emergenza resta la fuga dei professionisti dal SSN: per restituire attrattività servono anche (ma non solo) risorse consistenti, che attualmente non sono disponibili».

«Il DFP 2025 – conclude il Presidente – conferma che, in linea con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, la sanità pubblica continua a non rappresentare una priorità per il Paese, nonostante la grave crisi di sostenibilità del SSN e il progressivo sgretolamento del diritto alla tutela della salute. Alla luce delle stime al ribasso del PIL e del quadro macroeconomico, va riconosciuto all’Esecutivo il merito di aver scongiurato ulteriori e drammatici tagli alla spesa sanitaria. Tuttavia, nonostante l’incremento previsto in valore assoluto, il peso della sanità sul PIL resta inchiodato al 6,4% fino al 2028, lasciando il SSN largamente sottofinanziato».

H5N1: il virus si sta adattando. Non c’è trasmissione interumana, ma serve prepararsi

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Il 19 marzo scorso oltre 1.200 esperti da tutto il mondo si sono riuniti, su invito dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), per discutere le priorità di ricerca e sviluppo in risposta a una potenziale minaccia globale: l’influenza aviaria H5N1. L’incontro, intitolato What research is important to prepare and respond to H5N1 influenza outbreaks?, ha riacceso i riflettori su un virus che negli ultimi mesi ha mostrato segnali preoccupanti di diffusione tra diverse specie animali, compresi i bovini da latte.

Tra i relatori dell’evento, anche l’ematologo e virologo Daniele Focosi, dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, che da anni collabora con l’Istituto Nazionale Malattie Infettive (INMI) Spallanzani e con la Johns Hopkins University, invitato a presentare una relazione sull’evoluzione dei prodotti in sperimentazione, tra cui vaccini a protezione ampia.

Lo abbiamo intervistato per TrendSanità per capire quali sono i reali rischi all’orizzonte, lo stato della ricerca e le sfide produttive legate ai vaccini.

Quali sono i punti principali emersi durante la riunione con l’OMS, in particolare sul tema del virus H5N1?

Daniele Focosi

«Parliamo di un nuovo ceppo dell’influenza aviaria, appunto l’H5N1, il candidato principale tra i virus che possono causare nuove pandemie. In particolare, da circa 10 anni stiamo osservando un sottotipo chiamato 2.3.4.4b presente negli uccelli selvatici, che da sempre rappresentano il serbatoio naturale delle influenze aviarie, introducendosi anche in uccelli da allevamento e recentemente in diverse specie di mammiferi, in pressoché tutti i continenti.

Ci sono stati, infatti, focolai molto ampi in mammiferi sia selvatici (nelle Americhe) che allevati (come i visoni in Spagna e Finlandia). Poi, da circa un anno, negli Stati Uniti, il virus ha fatto un ulteriore salto, arrivando ai bovini da latte con 2 distinti sotto-sottotipi chiamati B3.13 e D1.1. Si tratta di animali con cui l’uomo ha contatti molto stretti e spesso non protetti.

Negli USA, ad esempio, accade spesso che i dipendenti di un allevamento siano immigrati irregolari per cui è molto difficile effettuare il contact tracing. Come tali, è probabile che scarseggino di dispositivi di protezione individuale e spesso non si fanno visitare quando stanno male. Sono tutti fattori che aumentano il rischio di un possibile salto di specie. Ed è proprio per questo che l’OMS ha convocato la riunione.

Non ci sono, ad oggi, segnali di trasmissione da persona a persona, ma non dobbiamo abbassare la guardia

Cosa intende per “adattamento”?

«Significa che il virus comincia a trasmettersi tra gli esseri umani. Può avvenire gradualmente, ma anche in modo improvviso. Un rischio specifico si presenta quando una persona o un mammifero si infetta contemporaneamente con un ceppo umano dell’influenza e con quello aviario. In questo caso si può verificare una “ricombinazione”, un processo che accelera l’adattamento del virus all’organismo umano, cioè può acquisire mutazioni che gli permettono di replicarsi in modo più efficiente nelle nostre cellule. A quel punto, può iniziare a trasmettersi da persona a persona. E questo, ovviamente, rappresenta una potenziale nuova pandemia».

Oggi però abbiamo strumenti diversi rispetto al passato.

«Possiamo monitorare quasi in tempo reale l’evoluzione del virus. Ciò non toglie che una pandemia resti un evento imprevedibile, ma siamo in grado di osservare il processo di adattamento del virus all’essere umano: stiamo già vedendo dei segnali, anche se probabilmente stiamo intercettando solo la punta dell’iceberg. Le manifestazioni cliniche nei casi umani sporadici diagnosticati finora sono state lievi: spesso si trattava di semplici congiuntiviti, in molti casi nemmeno accompagnate da febbre, quindi difficili da intercettare. In questi casi, il virus è entrato nell’organismo attraverso la mucosa nasale o oculare, non adeguatamente protette durante l’esposizione. È la porta d’ingresso più frequente per chi lavora a stretto contatto con animali infetti».

C’è anche il rischio di contagio da altri mammiferi?

«Sì, ed è un altro elemento che preoccupa. Nei pressi degli allevamenti di bovini negli Stati Uniti, dove si sono verificati i focolai, si sono ammalati anche altri mammiferi, come i gatti a cui veniva dato da bere latte crudo, non pastorizzato. Le modalità di trasmissione negli allevamenti sono ancora poco chiare, ma l’intervento umano è probabilmente decisivo. Il virus è stato rinvenuto in grandi quantità nelle ghiandole mammarie dei bovini. E negli allevamenti si usano le stesse tettarelle per aspirare il latte da un animale all’altro, senza sterilizzarle adeguatamente. Aggiungiamo poi che negli Stati Uniti c’è un’enorme movimentazione di bovini tra gli stati, per motivi riproduttivi o commerciali».

Si sta già pensando a dei vaccini?

«Ci sono Paesi come la Finlandia che hanno già imposto la vaccinazione per gli operatori a stretto contatto con gli animali a rischio. Per quanto riguarda invece una vaccinazione estesa alla popolazione generale, in caso di pandemia, si entrerebbe in uno scenario completamente diverso. Esiste già da anni un modello collaudato: quello dell’aggiornamento annuale dei vaccini stagionali contro l’influenza. L’OMS, ogni anno, indica ai produttori i ceppi virali che con maggiore probabilità circoleranno nella stagione successiva. Ma tutto cambia in uno scenario pandemico, dove il tempo tra il riconoscimento del virus e la disponibilità sul mercato di dosi vaccinali sufficienti si deve restringere drasticamente.

Nel caso dell’influenza aviaria, c’è anche un altro problema. I vaccini influenzali sono prodotti ancora in larga parte usando uova embrionate di gallina. In piena emergenza pandemica da un virus aviario, quindi, potrebbe non esserci disponibilità sufficiente di uova per produrre le dosi necessarie.

L’attuale dipendenza dai vaccini prodotti su uova di gallina rischia di diventare un limite critico in caso di pandemia da virus aviario

È su questa matrice biologica che viene fatto crescere il virus influenzale, per poi estrarne gli antigeni utili a produrre il vaccino. Negli Stati Uniti, proprio a causa dei focolai di influenza aviaria negli allevamenti avicoli, si sta verificando una carenza di uova che, su larga scala, diventerebbe un problema sistemico per i produttori di vaccini».

L’Europa sarebbe in grado di far fronte a una simile emergenza?

«Ad oggi, no. Anche l’Europa sta affrontando da anni focolai di aviaria e la capacità di autosufficienza di uova in alcuni Paesi è già spesso al limite. Questo è il primo grande problema per produrre dosi vaccinali. Il secondo riguarda i tempi produttivi. Anche ammesso che le uova siano disponibili, prima di riuscire a produrre le prime dosi di vaccino, passerebbero comunque 5 o 6 mesi. E parliamo delle prime dosi, non certo di quantità sufficienti per coprire tutta la popolazione mondiale».

Ci sono alternative alle uova?

«Sì, già oggi circa il 16% dei vaccini è prodotto su colture cellulari. Questo sistema ha un vantaggio importante: è indipendente dalla disponibilità di uova. Ma ha anche un limite: i tempi produttivi sono praticamente gli stessi. In più, questa tecnologia è in mano a pochi produttori nel mondo, quindi non sarebbe comunque sufficiente a garantire una distribuzione capillare e tempestiva in caso di pandemia.

Serve un cambio di paradigma. È necessario concentrarsi su tecnologie che siano indipendenti sia dalle colture su uova, sia da quelle su cellule. Tecnologie che permettano, cioè, di aumentare rapidamente il numero di dosi producibili e soddisfare la domanda vaccinale nel minor tempo possibile».

C’è già un’ipotesi concreta in questa direzione?

«Sì, qualcosa che in parte abbiamo già sperimentato durante la pandemia da Covid-19: i vaccini a RNA messaggero. In questi ultimi 3-4 anni, c’è stato un ulteriore passo avanti con lo sviluppo dei vaccini a RNA messaggero autoamplificante o self-amplifying mRNA.
Quando abbiamo fatto il vaccino contro il Covid, la quantità di antigene prodotta nel nostro organismo dopo l’iniezione dipendeva direttamente dalla quantità di RNA contenuta nel vaccino. Ma la quantità di RNA è il collo di bottiglia: più RNA serve per immunizzare una persona, meno dosi l’azienda riesce a produrre in tempi brevi.

Con i vaccini autoamplificanti, invece, cambia tutto. Occorre circa 30 volte meno RNA per ottenere la stessa risposta immunitaria. Questo perché il vaccino contiene non solo l’RNA che codifica l’antigene, ma anche l’enzima necessario per replicare quella molecola all’interno dell’organismo. Enzima che il nostro corpo non possiede».

In pratica, il vaccino si moltiplica da solo?

«Esattamente. Una piccola quantità di RNA, grazie all’enzima incluso, è replicata direttamente nell’organismo e produce una quantità molto maggiore di antigene. Così si riescono a immunizzare più persone partendo dalla stessa quantità di materia prima. Anche i costi si abbassano. Durante gli ultimi anni della pandemia da Covid, i costi dei vaccini sono aumentati in parte perché la domanda si era ridotta, meno richiami, meno interesse da parte della popolazione. Ma in uno scenario pandemico, con una domanda altissima e una tecnologia che consente di moltiplicare per trenta la produzione di dosi, questi vaccini diventano estremamente competitivi. I brevetti però sono ancora nelle mani di poche aziende. Ma dal punto di vista regolatorio si stanno facendo grandi passi avanti.

Con i vaccini a RNA messaggero autoamplificante si riescono a immunizzare più persone partendo dalla stessa quantità di materia prima

Lo scorso dicembre, l’EMA ha approvato il primo vaccino anti-Covid basato su RNA autoamplificante, sviluppato da una biotech statunitense. E se guardiamo alla pipeline, cioè alle previsioni autorizzative, dei vaccini a RNA contro l’influenza aviaria, ci sono già almeno sei produttori a livello mondiale che stanno conducendo studi clinici con questa tecnologia».

Ci sono rischi di mutagenesi o integrazione nel DNA?

«No. Parliamo sempre di un vaccino a RNA, che non si integra nel genoma. La sua attività resta confinata nel citoplasma della cellula, senza mai entrare nel nucleo. Il profilo di sicurezza è identico a quello dei vaccini RNA che abbiamo già conosciuto durante il Covid. Coi vaccini a RNA autoamplificante c’è un rischio teorico non di sicurezza, ma piuttosto di perdita di efficacia con dosi ripetute, dovute a risposte immunitaria contro l’enzima. Ma, a differenza del SARS-CoV-2, che muta rapidamente e richiede frequenti richiami, il virus dell’influenza muta più lentamente ed in un contesto pandemico la probabilità che emergano altri ceppi rimane molto bassa. La necessità di booster frequenti è, pertanto, molto più bassa. Il vaccino verrebbe somministrato principalmente una volta, o comunque in un arco temporale limitato, sufficiente a controllare l’onda pandemica».

Come cominciare a parlarne al pubblico, senza creare allarmismi?

«È una delle preoccupazioni più forti. Esiste un termine inglese molto usato in questo contesto, pandemic fatigue, che descrive l’assuefazione dell’opinione pubblica nel sentir parlare continuamente di nuove pandemie. Il rischio è che la gente non reagisca più con la necessaria prontezza quando davvero si presenterà una nuova emergenza sanitaria.

La pandemic fatigue (l’assuefazione dell’opinione pubblica) rischia di rallentare la risposta pubblica a future emergenze sanitarie

Durante il Covid, la mortalità si è concentrata soprattutto tra le persone anziane e fragili, e l’età media dei decessi è stata di circa 80 anni.
Con l’influenza pandemica il discorso si ribalta. I giovani sarebbero più a rischio, mentre gli anziani immunocompetenti, paradossalmente, potrebbero essere più protetti, perché nel corso della loro vita hanno incontrato ceppi influenzali più simili a quello pandemico emergente e questo fornisce una certa quota di immunità crociata».

La decisione di Trump di uscire dall’OMS potrebbe avere conseguenze?

«Non credo ci saranno grandi effetti operativi, almeno per quanto riguarda la produzione dei vaccini. Le aziende che sviluppano vaccini a mRNA continueranno a operare in autonomia, senza dipendere dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Sebbene l’OMS giochi un ruolo scientifico nel coordinamento e nella scelta dei ceppi virali, questo compito potrebbe essere facilmente assunto da enti regionali come l’ECDC in Europa o il CDC negli Stati Uniti.

L’OMS resta fondamentale nel sostenere economicamente la produzione di vaccini nei Paesi a basso reddito, dove la popolazione di giovani adulti è maggioritaria. In queste aree, le condizioni strutturali, come la mancanza di protezioni, scarsa prevenzione e alta densità abitativa, renderebbero l’impatto di una nuova epidemia potenzialmente più grave rispetto al Covid».

SIGU: «Fondamentale il riconoscimento del genetista nella presa in carico dei pazienti e nella cabina di regia del SSN, anche per definire i LEA»

La genetica è ormai una disciplina fondamentale nella medicina contemporanea: è essenziale per le diagnosi, indispensabile per una medicina personalizzata, imprescindibile nella ricerca. Parliamo di test genetici di ultima generazione (come il sequenziamento di genoma ed esoma), ma anche di farmacogenetica, di oncogenetica e oncogenomica, di medicina riproduttiva. È ormai chiaro che il genetista clinico ha un ruolo fondamentale non solo nella pratica clinica, ma anche nella pianificazione e nella gestione delle risorse disponibili per il nostro Sistema Sanitario Nazionale.

A questo tema è stato dedicato l’evento “Il ruolo del genetista medico. Percorso aperto per la valorizzazione della figura del genetista nel Servizio Sanitario Nazionale” svoltosi presso l’Auditorium Cosimo Piccinno del Ministero della Salute a Roma.

Il ruolo del genetista medico

«Il genetista medico è inscindibile dalla medicina contemporanea – spiega Paolo Gasparini, Presidente della SIGU, Società Italiana di Genetica Umana – perché la genetica rappresenta ormai un pilastro fondamentale per la diagnostica e per la personalizzazione delle cure. È opinione diffusa che i genetisti medici lavorino soprattutto in laboratorio, nell’eseguire test genetici sempre più complessi, ma oggi il genetista clinico è soprattutto un medico a tutti gli effetti e per sua formazione deve riuscire ad avere una visione globale delle problematiche delle persone che lo consultano. Parliamo di oncologia, di medicina riproduttiva, e certamente anche del complesso ambito delle malattie rare, che per la larghissima maggioranza hanno una causa genetica. È il genetista il medico in grado di ottenere la profilazione genomica di un tumore, per permettere un percorso terapeutico mirato. È sempre il genetista che è in grado di fornire informazioni sulla familiarità della patologia oncologica, gestendo le indagini genetiche “a cascata” per i familiari. Ancora, è il genetista medico ad affiancare le coppie che si apprestano ad affrontare un percorso di PMA con diagnosi preimpianto. È sempre il genetista medico uno degli specialisti in grado di porre il sospetto clinico in caso di malattia rara. A partire dalla prevenzione, l’integrazione del genetista nei percorsi diagnostici può ridurre l’incidenza di malattie ereditarie, genetiche e rare, consentendo interventi preventivi che migliorino la qualità della vita dei pazienti. Il contributo di questa figura professionale, essenziale per rendere i processi di diagnosi e cura più rapidi ed efficienti, può diminuire la complessità burocratica e migliorare l’accesso alle cure. Inoltre, grazie a diagnosi precoci e interventi mirati, il genetista può aiutare a ridurre significativamente costi e sprechi evitando terapie inadeguate o tardive».

L’importanza della prevenzione

Le sfide per il nostro SSN sono molteplici, a partire dalla sostenibilità, ma anche dalla corretta stima delle risorse necessarie. Durante l’evento, infatti, i rappresentanti istituzionali si sono concentrati in modo particolare sul ruolo della genetica medica per la prevenzione.

«Per fare prevenzione bisogna conoscere la composizione della popolazione – ha dichiarato il Sen. Ignazio Zullo, membro della Commissione X “Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale” del Senato della Repubblica – capire che le malattia rare sono una priorità, così come la presa in carico dei pazienti anziani. Dobbiamo ricordare che ci sono molte patologie a trasmissione genetica, e tutti questi aspetti devono essere affrontati con un approccio multidisciplinare che oggi deve necessariamente comprendere il genetista clinico. Per questo auspico che il mondo istituzionale comprenda pienamente l’impatto della genetica nella medicina contemporanea. A tal fine sono a disposizione per proseguire questo percorso di confronto e per produrre gli atti parlamentari idonei a portare avanti questo fondamentale obiettivo».

Superare le disparità territoriali

«In un momento in cui si parla sempre più spesso di medicina di precisione e di prevenzione, è fondamentale valorizzare il ruolo del genetista medico, figura centrale per affrontare con efficacia le grandi sfide del nostro Servizio Sanitario Nazionale – ha spiegato l’On. Francesco Ciancitto, Commissione XII “Affari Sociali”, Camera dei Deputati – Non possiamo parlare seriamente di prevenzione, soprattutto in ambito cardiovascolare e oncologico — due settori cruciali e ad alto impatto economico — senza il contributo del genetista medico. E non possiamo costruire una vera medicina personalizzata senza di lui. Per questo è essenziale che in ogni azienda sanitaria locale sia prevista la presenza stabile di questa figura professionale, affinché la genetica medica diventi una risorsa strutturale e accessibile per tutti i cittadini».

«È dunque fondamentale che il genetista medico, che deve lavorare in stretta collaborazione con gli altri specialisti, venga riconosciuto come una figura essenziale del nostro SSN. Un grande impegno della SIGU è quello di assicurarsi che vengano formati specialisti in medicina genomica – spiega Brunella Franco, Ordinario di Genetica Medica, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università “Federico II”, ricercatore dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina e docente della Scuola Superiore meridionale, Napoli – cioè medici che siano in grado di stare al passo con il continuo evolvere della genetica. I genetisti devono prima di tutto avere una formazione completa dal punto di vista clinico, che li prepari anche all’avvento di tutte le nuove terapie, che presuppongono un modello assistenziale completamente diverso da quello del passato. Dopo di che dovranno specializzarsi ulteriormente: oncogenomica, farmacogenetica, medicina riproduttiva, malattie rare, bioinformatica; queste sono le sfide alle quali il nostro SSN deve rispondere quotidianamente».

Le 4 azioni concrete

«Durante questo incontro – conclude Franco – abbiamo individuato almeno 4 azioni che possono essere messe in atto per riconoscere concretamente la figura del genetista. La prima azione è certamente l’inserimento del genetista nei tavoli decisionali, come il Consiglio Superiore di Sanità. Per lo stesso motivo i genetisti devono essere coinvolti nella definizione dei LEA».

«Pensando poi alla difficile gestione dei pazienti adulti con malattie genetiche e rare – spiega ancora Franco – dal confronto odierno con le istituzioni è emerso che il medico genetista potrebbe essere una figura chiave per fornire a pazienti e famiglie un punto di riferimento. Il genetista può essere il “disease manager” in grado di coordinare tutti gli altri specialisti necessari alla presa in carico globale, senza perdere di vista il punto centrale, cioè la persona nella sua complessità».

«Infine – conclude Franco – tutti gli interlocutori concordano nella necessità di un riconoscimento, da parte del Ministero della Salute, della certificazione SIGUCERT per i laboratori di genetica, che devono garantire un elevato standard qualitativo e di competenza».