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Garante della salute, FNOPI: «Bene proposta Zaffini. L’infermiere di famiglia e comunità si muove in questa direzione»

«Un collettore unico per la sanità territoriale? Una direzione giusta. L’infermiere di famiglia e comunità è già pronto». Le dichiarazioni del Presidente della Commissione Affari Sociali e Sanità del Senato Francesco Zaffini sull’importanza di individuare un garante della salute al fianco dei cittadini, anche e soprattutto nel momento di affrontare la grande sfida della sanità territoriale, rappresentano una riflessione tanto lucida quanto necessaria.

Oggi, infatti, il sistema sanitario – soprattutto nella sua dimensione territoriale – evidenzia una forte frammentazione. Anche quando i servizi sono presenti e funzionanti, sono spesso l’assistito o il caregiver a dover tessere da soli la trama dell’assistenza, interpellando decine di punti diversi e figure professionali distinte, senza un chiaro riferimento che assicuri continuità, integrazione e semplificazione.

FNOPI sottolinea come questa esigenza – quella di un collettore professionale che accompagni la persona nei suoi percorsi di salute – sia da sempre al centro della propria visione. È in questa direzione che si muovono il profilo dell’Infermiere di Famiglia e Comunità (IFeC) e lo spirito stesso del DM 77/2022: una figura capace di presidiare il territorio garantendo prossimità, presa in carico continuativa, integrazione tra servizi e personalizzazione delle cure, oltre la logica episodica della prestazione.

Lo stesso Punto Unico di Accesso (PUA), nodo strategico delle Case della Comunità, e le COT (Centrali Operative Territoriali), in cui la presenza infermieristica è centrale, vanno esattamente in questa direzione: ricomporre l’assistenza, renderla leggibile, accessibile, continua. Ma perché questi snodi funzionino davvero, servono professionisti stabili, formati e riconosciuti, capaci di assumere la responsabilità di accompagnare e coordinare i percorsi assistenziali.

L’infermiere, per formazione, prossimità, e conoscenza della persona, della sua storia, dei suoi bisogni e del suo contesto familiare, è – per FNOPI – una delle figure più naturalmente predisposte a questo ruolo.

Accogliamo dunque con favore l’invito del Senatore Zaffini a semplificare il sistema, garantire diritti e ridurre le fratture organizzative, anche attraverso il riconoscimento di funzioni e ruoli chiave.

Intelligenza artificiale in sanità: tra governance, innovazione e dati, l’Italia cerca la sua rotta

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L’intelligenza artificiale (AI) in sanità è sempre più al centro del dibattito, tra promesse di efficienza, sfide etiche e necessità di visione strategica. Oggi si moltiplicano le sperimentazioni, le piattaforme, i progetti pilota. Ma qual è la direzione che il sistema sanitario italiano sta davvero prendendo nell’adozione dell’AI?

Da un lato, le aziende sanitarie iniziano a confrontarsi con strumenti concreti: algoritmi che ottimizzano le prescrizioni, piattaforme di open innovation, osservatori permanenti per mappare l’esistente e intercettare bisogni reali. È il caso dell’Osservatorio Nazionale sull’Intelligenza Artificiale in Sanità lanciato recentemente da FIASO, la Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere, che vuole connettere domanda e offerta di soluzioni AI con un approccio pragmatico e misurabile. 

L’Osservatorio FIASO: una mappa dell’AI già presente nelle aziende sanitarie

Giovanni Migliore
Giovanni Migliore

«L’intelligenza artificiale in sanità non è una promessa futura, è già tra noi», afferma il presidente FIASO Giovanni Migliore. A confermarlo, le oltre 40 soluzioni operative raccolte attraverso la call for practice lanciata dalla Federazione. L’Osservatorio, del resto, è stato pensato proprio per far incontrare domanda e offerta, valorizzare le buone pratiche e promuovere un’innovazione realmente utile per i cittadini.

L’obiettivo è chiaro: identificare e sostenere soluzioni ad alto impatto e con risultati misurabili, non sperimentazioni isolate o progetti di vetrina. L’Osservatorio si concentra su due aree prioritarie: l’emergenza-urgenza e la gestione dell’accesso ai servizi, in particolare le liste d’attesa e l’appropriatezza prescrittiva.

E la resistenza culturale? «Non la vedo – risponde Migliore -. Anzi: 30 milioni di italiani si aspettano che l’AI migliori la qualità dell’assistenza. Sta a noi dare risposte all’altezza. Per questo la formazione del personale sarà decisiva: vogliamo un’innovazione consapevole e diffusa».

L’AI come leva di efficienza

Un esempio concreto arriva dalla Puglia, dove un algoritmo analizza la coerenza tra prescrizioni diagnostiche e linee guida cliniche. Il risultato? Il 40% degli esami prescritti è risultato non appropriato. «Questi dati dimostrano che migliorando la qualità delle prescrizioni possiamo ridurre sensibilmente le liste d’attesa senza bisogno di nuove risorse», spiega Migliore, nel suo ruolo di Direttore Generale di AReSS Puglia, l’Agenzia Regionale Strategica per la Salute ed il Sociale.

Anche nell’organizzazione degli appuntamenti, l’intelligenza artificiale mostra potenzialità enormi: all’ASL Napoli 3 un algoritmo consente di evitare i “buchi” nella pianificazione, aumentando l’efficienza fino al 20%. Sono esperienze che testimoniano come l’AI possa già oggi migliorare l’organizzazione e la sostenibilità del sistema.

Open innovation: la piattaforma NextH.ai per idee e soluzioni mature

Per promuovere la partecipazione di startup, centri di ricerca e aziende, FIASO ha attivato anche una piattaforma di open innovation, NextH.ai. Due le call attive: una per raccogliere nuove idee progettuali, l’altra per accelerare soluzioni già mature. Le proposte selezionate saranno premiate a gennaio 2026, dopo la valutazione da parte del comitato scientifico dell’Osservatorio.

«L’intelligenza artificiale non deve restare teoria – ribadisce Migliore -. Va inserita nei processi assistenziali reali, con una formazione capillare del personale e una cultura dell’innovazione consapevole».

Senza dati, l’AI non può funzionare

Questa primavera è stato approvato al Senato e alla Camera un disegno di legge sull’intelligenza artificiale. Il testo è attualmente in terza lettura al Senato, dopo alcune modifiche che sono state introdotte, tra cui un emendamento a prima firma della senatrice Beatrice Lorenzin che riguarda i dati sanitari.

Beatrice Lorenzin

All’interno del testo, ampio spazio è infatti dedicato alla sanità: la modifica accolta permette l’uso secondario dei dati per la ricerca, grazie anche a strumenti di intelligenza artificiale o nuovi metodi di analisi dati che automatizzano la costruzione di modelli analitici, mantenendo alti gli standard di sicurezza e privacy. «Si tratta di un passo avanti significativo – commenta Lorenzin a TrendSanità -: senza l’abilitazione all’uso per la ricerca e la programmazione non si valorizza appieno la potenzialità dell’intelligenza artificiale». Secondo la senatrice, senza interoperabilità e dati affidabili e in tempo reale, l’AI rischia di restare un’utopia tecnologica. «La ricerca biomedica e la programmazione sanitaria dipendono dall’accesso ai dati. Senza la possibilità di riutilizzare i dati raccolti per la cura, la metà della ricerca è bloccata», spiega.

Il nodo dell’interoperabilità: i limiti della digitalizzazione sanitaria

Durante il suo mandato come Ministra della Salute, Lorenzin aveva posto le basi per la creazione del Fascicolo Sanitario Elettronico, che un decennio dopo non è ancora una realtà sull’intero territorio nazionale. E il nodo è la frammentazione dei sistemi informativi sanitari regionali. «Durante il mio mandato da ministra, abbiamo avviato il Fascicolo Sanitario Elettronico e stanziato risorse per renderlo interoperabile. Ma oggi, nonostante i miliardi del PNRR, l’immissione dei dati è ancora incompleta».

Il rischio? Avere strumenti avanzati senza contenuti su cui lavorare. «Senza dati aggiornati e interoperabili, nessuna intelligenza artificiale può funzionare davvero. È una priorità che va monitorata con attenzione, anche perché il PNRR si avvia alla scadenza», avverte.

AI per la programmazione e la prevenzione: il vero salto di qualità

Secondo Lorenzin, l’AI può e deve servire non solo alla ricerca, ma anche alla programmazione sanitaria e alla prevenzione. «Avere accesso ai dati di intere popolazioni, in forma anonima e protetta, significa poter anticipare i bisogni di salute, valutare l’aderenza terapeutica, ridurre gli sprechi e orientare le politiche sanitarie», afferma.

Il suo sogno, da ministra, era avere un cruscotto digitale per monitorare in tempo reale le performance delle strutture sanitarie. «Oggi la tecnologia lo permetterebbe. Ma dobbiamo recuperare il ritardo sull’infrastruttura di base». Ancora una volta: servono i dati. I prossimi mesi – con la piena attuazione del PNRR – saranno decisivi per capire se sapremo davvero trasformare l’AI da strumento di sperimentazione a leva di trasformazione strutturale della sanità pubblica.

AVIS e FNOPI rinnovano il protocollo d’intesa. On line appelli congiunti a donare d’estate

AVIS (l’Associazione volontari italiani del sangue) e FNOPI (la Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche) hanno rinnovato il protocollo d’intesa. La firma dell’accordo, che era già stato sottoscritto negli anni passati, è avvenuta nella sede di AVIS Nazionale a Milano alla presenza dei due presidenti Oscar Bianchi e Barbara Mangiacavalli.

Il documento, oltre a ribadire la mission che contraddistingue ciascuna delle due realtà, si propone di promuovere un rafforzamento del ruolo del personale infermieristico all’interno dei centri di raccolta per favorire una gestione ancora più diretta delle relazioni con i donatori. Inoltre, si legge nel testo del protocollo, AVIS e FNOPI «si impegnano a sostenere congiuntamente percorsi e sperimentazioni di innovazione e transizione digitale del sistema sanitario, con specifico riguardo all’ambito della medicina trasfusionale. Nell’ottica di fronteggiare la persistente carenza di personale sanitario, le Parti manifestano un comune interesse all’inclusione del personale infermieristico nelle attività di telemedicina, telemonitoraggio e teleassistenza, con particolare riferimento ai consulti preventivi finalizzati alla valutazione dell’idoneità alla donazione».

Il nuovo protocollo d’intesa avrà durata annuale e impegna AVIS e FNOPI a promuovere le reciproche attività attraverso le proprie reti territoriali. Il rinnovo della collaborazione ha rappresentato anche l’occasione per annunciare l’iniziativa a cui AVIS e FNOPI daranno vita sui rispettivi canali social: una campagna per ricordare come il bisogno di sangue e plasma non cessi mai, tantomeno in estate, e come soprattutto in questo periodo anche grazie all’impegno di migliaia di infermieri sia possibile proseguire regolarmente le attività trasfusionali e garantire scorte di emocomponenti.

Come ha dichiarato a margine della firma il presidente di AVIS Nazionale, Oscar Bianchi, «siamo molto soddisfatti di essere riusciti a rinnovare questo accordo e proseguire così una collaborazione che ritengo strategica non solo per la nostra associazione, ma per la stabilità dell’intero settore trasfusionale nazionale. Garantire un impegno sempre maggiore del personale infermieristico significa riuscire ad assicurare il regolare svolgimento della raccolta di emocomponenti e il mantenimento dell’autosufficienza di globuli rossi. L’infermiere rappresenta da sempre un punto di riferimento non solo per il paziente, ma per l’intero reparto ospedaliero in cui opera e lo stesso vale per le unità di raccolta. Ringrazio la FNOPI per aver deciso di proseguire questo percorso con noi e mi auguro che sia solo il primo di una serie di traguardi che potremo tagliare insieme nel prossimo futuro».

Per la presidente della FNOPI, Barbara Mangiacavalli, «gli infermieri rappresentano la figura cardine nella presa in carico del donatore e del ricevente durante tutto il percorso trasfusionale e sono formati in modo specifico per questo. Tale peculiarità non è spesso riconosciuta in termini valoriali e professionali da aziende e istituzioni, laddove l’infermiere specializzato può garantire ai massimi livelli il controllo delle trasfusioni e il buon uso del sangue, così come già avviene negli ospedali. Un ruolo ancora più cruciale si delinea oggi, con l’integrazione dell’e-health nel percorso trasfusionale: strumenti avanzati permettono di introdurre un vero e proprio ‘triage infermieristico’, fisico ed ematologico, capace di migliorare l’efficienza nella selezione dei donatori, ottimizzare i tempi e aumentare la qualità delle informazioni raccolte attraverso il questionario di idoneità».

Virus respiratorio sinciziale, SIP e SIN inviano al Ministero e alle Regioni le raccomandazioni per una profilassi uniforme

La Società Italiana di Pediatria (SIP) e la Società Italiana di Neonatologia (SIN) hanno redatto e trasmesso al Ministero della Salute e alla Conferenza delle Regioni un documento congiunto di raccomandazioni per la prevenzione dell’infezione da Virus Respiratorio Sinciziale (VRS). L’obiettivo è quello di promuovere una strategia nazionale uniforme di immunizzazione dei neonati e dei lattanti alla prima stagione epidemica, utilizzando nirsevimab, l’anticorpo monoclonale a lunga durata d’azione, per garantire la massima protezione possibile contro il VRS, indipendentemente dal luogo o dal mese di nascita.

Il Virus Respiratorio Sinciziale (VRS) è una delle principali cause di infezioni respiratorie nei bambini sotto i 5 anni. A livello globale provoca ogni anno 3,6 milioni di ricoveri e oltre 100.000 decessi, soprattutto nei Paesi a basso reddito. In Italia, la stagione epidemica si estende da ottobre ad aprile, con un picco tra gennaio e febbraio. Durante questo periodo, il VRS esercita una forte pressione sui Pronto Soccorso pediatrici e causa un elevato numero di ricoveri ospedalieri, talvolta anche in terapia intensiva.

Una strategia per colmare le disuguaglianze regionali

Il nirsevimab, approvato da EMA nel 2022 e da AIFA nel 2023, è stato introdotto in Italia per la prima volta nella stagione epidemica 2024-2025. La Delibera della Conferenza Stato-Regioni del 17 ottobre 2024 ne ha previsto la somministrazione gratuita e su base volontaria a tutti i neonati a partire dal 1° novembre 2024, estendendo la copertura in modo variabile anche ai nati nei mesi precedenti e ai bambini sotto i due anni con condizioni di fragilità. Tuttavia, un’indagine condotta da SIP e SIN ha evidenziato forti disomogeneità regionali nell’implementazione del programma, sia per le diverse tempistiche di avvio sia per l’accesso limitato dei bambini nati fuori dalla finestra epidemica (prima di novembre e dopo marzo).

Le raccomandazioni per la stagione 2025-2026

Nel nuovo documento, SIP e SIN raccomandano che:

  • Tutti i neonati e lattanti alla loro prima stagione epidemica siano immunizzati con nirsevimab. L’immunizzazione è consigliata anche nei bambini nati prima della stagione epidemica, ossia nel periodo che va da aprile a settembre, per i quali è raccomandato il richiamo nel mese di ottobre in modo che la protezione possa essere massima (la copertura di somministrazione è di 5-6 mesi)
  • Per i nati prima di ottobre, la somministrazione avvenga preferibilmente nel mese di ottobre o comunque prima dell’inizio della stagione epidemica presso gli ambulatori dei Pediatri di famiglia o i Centri vaccinali
  • Per i nati durante la stagione epidemica (ottobre-aprile), la profilassi sia somministrata prima della dimissione dal Centro di Neonatologia ospedaliero
  • Le donne in gravidanza tra la 32° e la 36° settimana, con parto previsto nella stagione epidemica, ricevano il vaccino proteico ricombinante bivalente anti VRS per proteggere se stesse e i propri neonati nei primi mesi di vita
  • I bambini sotto l’anno di vita che hanno già contratto l’infezione da VRS ricevano comunque nirsevimab.

Particolare attenzione è posta anche ai bambini con patologie croniche medicalmente complesse, per i quali si raccomanda la profilassi anche all’inizio della loro seconda stagione epidemica. SIP e SIN sottolineano inoltre che la co-somministrazione con gli usuali vaccini dell’infanzia è possibile e non presenta controindicazioni.

Un appello alle Istituzioni

Le due Società scientifiche chiedono che il documento sia recepito dalle Istituzioni per armonizzare i criteri di somministrazione a livello nazionale, assicurando pari opportunità di prevenzione per tutti i bambini e favorendo un’organizzazione più efficace e capillare. «È fondamentale che ogni bambino e in ogni regione abbia lo stesso diritto alla protezione dal VRS – dichiarano SIP e SIN -. Solo attraverso una strategia condivisa e omogenea possiamo ridurre i ricoveri e garantire una tutela reale ai più piccoli».

Dall’ospedale al territorio: costruire una cultura condivisa sull’uso appropriato degli antibiotici

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Se l’ospedale ha storicamente rappresentato il cuore operativo della stewardship antimicrobica, oggi è il territorio a costituirne la nuova frontiera strategica. Ed è proprio qui, tra ambulatori di medicina generale e di pediatria, residenze sanitarie, farmacie di comunità e cittadini (spesso inconsapevoli dei rischi associati ad un uso non appropriato degli antibiotici) che si gioca una parte essenziale della sfida all’antibiotico-resistenza.

Un gruppo di esperti, durante il workshop del progetto ARCO (Approcci di Rete per il Contrasto all’Antimicrobico-Resistenza Ospedale-Territorio) ha analizzato questo scenario con lucidità e pragmatismo, partendo da un presupposto condiviso: la stewardship antimicrobica non può funzionare se resta confinata agli ospedali. È indispensabile una governance territoriale, strumenti specifici e, soprattutto, un profondo cambiamento culturale che coinvolga tutti gli attori del sistema.

Attraverso sei statement operativi, elaborati e discussi da professionisti provenienti da tutto il Triveneto, è stata delineata una roadmap concreta per realizzare una stewardship “di prossimità”, in grado di orientare le pratiche prescrittive nel territorio in modo coerente, coordinato e sostenibile.

Costituire un Team AMS territoriale multidisciplinare

Il primo passo individuato è la creazione di un team territoriale dedicato all’antimicrobical stewardship (AMS), con mandato operativo esplicito, supportato dalla Direzione strategica aziendale (coordinamento, formazione, audit e supporto ai prescrittori). La proposta ha raccolto un ampio consenso, anche alla luce dei dati migliorabili sull’appropriatezza prescrittiva in medicina generale. È ormai acclarato che una quota significativa delle prescrizioni di antibiotici riguarda il trattamento di patologie probabilmente di origine virale o profilassi non sempre giustificate (es. in campo odontoiatrico).

È importante che il team sia interdisciplinare e rappresentativo

Secondo gli esperti che hanno partecipato alla discussione, il team deve essere interdisciplinare e rappresentativo, includendo figure come il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta, l’infettivologo, il microbiologo, il farmacista di comunità, la direzione sanitaria e l’infermiere territoriale. Fondamentale è che il team non resti un’entità solo formale, ma operi in modo concreto, con obiettivi chiari, risorse dedicate e una funzione di raccordo strutturato con l’ospedale e le strutture residenziali.

È stata inoltre sottolineata la necessità di adattare la composizione del team alle specificità locali e di formalizzare il funzionamento tramite appositi atti aziendali, al fine di sostenere la leadership e garantire operatività e continuità nel tempo.

Definire procedure aziendali per la gestione delle infezioni più comuni in ambito territoriale

Uno dei frequenti ostacoli all’appropriatezza prescrittiva è l’assenza di procedure cliniche semplici e condivise per la gestione delle infezioni più comuni in ambito territoriale, come quelle respiratorie, urinarie e cutanee. Per superare questa difficoltà, è stata proposta la redazione e diffusione di protocolli aziendali che guidino le scelte cliniche dei medici sul territorio e degli specialisti ambulatoriali, basati su dati di resistenza locale e integrati nei flussi operativi.

La semplice esistenza di una procedura non è sufficiente: serve formazione attiva e coinvolgimento diretto dei prescrittori

È stata suggerita una standardizzazione flessibile: linee guida regionali da adattare a livello locale, con il supporto dei microbiologi per l’interpretazione dei dati di antibiotico-resistenza. La priorità dovrebbe essere data alle infezioni più diffuse e a maggior rischio di prescrizioni inappropriate. Per facilitarne l’adozione, è stato consigliato l’uso di strumenti digitali (app, poster, infografiche negli studi). Parallelamente, si è sottolineato che la semplice esistenza di una procedura non è sufficiente: è necessaria una formazione attiva e un coinvolgimento diretto dei prescrittori.

Integrare strumenti digitali e alert nei software gestionali

Per rendere realmente accessibili ed efficaci le procedure cliniche condivise, è fondamentale integrarle nei software gestionali, già utilizzati dai medici, con strumenti di supporto decisionale opportunamente validati dalla letteratura.

L’orientamento della prescrizione antibiotica attraverso strumenti digitali integrati nei software gestionali presenta sia una dimensione tecnica (uniformare e rendere interoperabili i diversi programmi) sia culturale (adesione consapevole e collaborativa dei professionisti sanitari). Tra le proposte discusse: introduzione obbligatoria della diagnosi in ricetta, alert correlati alla classificazione AWaRe e suggerimenti contestuali alla prescrizione.

I partecipanti hanno riconosciuto il potenziale di questi strumenti, ma anche le difficoltà operative: l’eterogeneità dei software in uso, la scarsa interoperabilità e la resistenza dei professionisti verso sistemi, a volte percepiti come “intrusivi”. Inoltre, in assenza di formazione e feedback continuo, gli alert rischiano di essere ignorati o disattivati.

Per questo motivo il gruppo ha proposto un modello non punitivo ma persuasivo, in cui gli strumenti digitali siano parte di un ecosistema più ampio, che includa audit, benchmarking, e supporto tra pari. È stata infine sottolineata l’importanza della formazione continua: senza una solida consapevolezza clinica del problema dell’antimicrobico-resistenza, nessun sistema informatico potrà incidere in modo significativo sulle abitudini prescrittive.

Inserire indicatori di AMS nei Patti Aziendali con la medicina del territorio

Oltre agli strumenti di supporto, anche le leve organizzative e contrattuali possono contribuire a orientare i comportamenti prescrittivi in senso più appropriato. In particolare, la responsabilizzazione formale dei medici attraverso l’inserimento di indicatori di appropriatezza antibiotica nei Patti Aziendali è stata indicata come una strategia potenzialmente efficace, con un duplice obiettivo: monitorare i comportamenti prescrittivi e promuovere una cultura professionale orientata alla stewardship.

È stato ampiamente condiviso che tali indicatori debbano essere: semplici, misurabili (attraverso i flussi informativi disponibili) e, soprattutto, contestualizzati in termini di indicatori “quantitativi” (es. riduzione del consumo totale rispetto a un benchmark) e “qualitativi” (es. percentuale di antibiotici Access prescritti sul totale).

Realizzare report utili per audit periodici

La reportistica periodica sul consumo di antibiotici e sui profili di resistenza è stata indicata come una leva fondamentale per aumentare la consapevolezza dei prescrittori e stimolare il cambiamento delle pratiche cliniche. Il gruppo ha proposto una cadenza almeno trimestrale per i dati di consumo e annuale per i dati di resistenza.

È importante che i report non siano percepiti come strumenti di controllo, bensì come elementi di confronto

Un aspetto chiave emerso è che i report non devono essere percepiti come strumenti di controllo unilaterale, ma come elementi di dialogo, confronto e feedback continuo. Come in altri ambiti, affinché siano realmente utili, è essenziale che i dati siano affidabili, tempestivi e facilmente interpretabili.

Oltre alla semplice produzione del dato, è stato sottolineato che il report deve rappresentare uno strumento utile per momenti di confronto soprattutto in un audit all’interno di un gruppo di pari.

Rafforzare la formazione degli operatori e la sensibilizzazione della popolazione

L’ultimo punto discusso, forse il più trasversale, riguarda la necessità di investire in modo strutturale nella formazione continua dei professionisti e nella sensibilizzazione della popolazione. La cultura dell’appropriatezza non può essere improvvisata né imposta dall’alto: va costruita nel tempo, con strumenti mirati e coinvolgenti.

I partecipanti hanno proposto percorsi formativi specifici, differenziati per ruolo e target. Le modalità suggerite spaziano dai corsi ECM alle sessioni brevi in ambulatorio, dai webinar agli incontri distrettuali, fino a forme di affiancamento tra pari, più informali ma ad alto impatto pratico.

Parallelamente è stata ribadita l’urgenza di campagne di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza per contrastare fenomeni ancora diffusi come l’autoprescrizione e la pressione sul medico per ottenere antibiotici. In questo senso, il team AMS territoriale potrebbe svolgere un ruolo educativo, affiancando farmacie di comunità, scuole, RSA e associazioni, per promuovere messaggi chiari e concreti sul corretto uso degli antibiotici.

L’AMS come linguaggio condiviso

Gli esperti hanno restituito un messaggio chiaro: la stewardship antimicrobica nel territorio è una sfida di sistema, da affrontare con strumenti innovativi e una visione di lungo periodo. Gli strumenti esistono: team territoriali, procedure condivise, indicatori, integrazioni di software e formazione mirata. È tuttavia indispensabile una governance capace di metterla a sistema, sostenuta da investimenti stabili, ascolto dei professionisti e forte coordinamento interistituzionale.

Il territorio è il primo presidio contro l’antibiotico-resistenza. Non può e non deve restare in secondo piano rispetto all’ospedale: va rafforzato con risorse, strumenti e alleanze operative. Solo così la stewardship potrà diventare un linguaggio condiviso, capace di attraversare i confini professionali e arrivare, in modo efficace e sostenibile, fino al paziente.

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Morbillo: quasi un italiano su 10 suscettibile al virus, 20-40enni il gruppo più a rischio

Quasi un italiano su dieci è suscettibile al morbillo, non ha cioè nessuna copertura immunitaria contro il virus data dal vaccino o dall’infezione pregressa, con i giovani adulti fra i 20 e i 40 anni che costituiscono un gruppo particolarmente a rischio in molte regioni, anche in quelle dove le coperture vaccinali nei bambini sono alte. Lo afferma uno studio coordinato dall’Istituto superiore di sanità (ISS) e dalla Fondazione Bruno Kessler pubblicato dalla rivista The Lancet Infectious Diseases.

Per lo studio sono stati analizzati i quasi 15mila casi di morbillo (con 14 morti) che sono stati notificati al sistema nazionale di sorveglianza integrata morbillo e rosolia, tra il 2013 e il 2022. La fascia di età in cui l’incidenza del morbillo è risultata maggiore è stata quella dei bambini sotto i 5 anni, mentre oltre la metà dei casi ha riguardato giovani adulti, tra i 20 e i 39 anni.  Considerando i casi con stato vaccinale noto, in quasi nove su dieci la persona colpita era non vaccinata. Una parte dei casi è stata analizzata più nel dettaglio per capire le modalità di trasmissione dei focolai che si sono verificati nel periodo. Inoltre, utilizzando un modello matematico e integrando i dati epidemiologici con quelli demografici della popolazione italiana, i ricercatori hanno stimato quanti sono i suscettibili al morbillo nel 2025 in tutte le regioni. Ecco le conclusioni principali:

  • La maggior parte (88,9%) delle infezioni secondarie (quelle che seguono il cosiddetto ‘caso indice’ nei focolai) è stata causata da individui non vaccinati. Solo l’1,1% delle infezioni sono avvenute tra persone entrambe vaccinate con almeno una dose.
  • Un terzo (33,3%) degli episodi di trasmissione è avvenuta tra giovani adulti, che sono stati anche responsabili di una rilevante proporzione di trasmissione ai bambini di età inferiore ai 5 anni. Il 35,5% dei contagi secondari è avvenuto in ambito familiare.
  • Nel 2025 il 9,2% della popolazione italiana è suscettibile al morbillo, e solo l’88,2% dei giovani sotto i 20 anni è immune. Il dato ha una grande variabilità regionale: per quanto riguarda la popolazione generale, le regioni del centro-nord registrano le percentuali più alte di suscettibili, mentre tra i giovani sotto i 20 anni la provincia di Bolzano e la Calabria risultano essere quelle con più soggetti suscettibili.
  • Nonostante alcune regioni abbiano raggiunto alti tassi di vaccinazione nei bambini, grazie alla legge sull’obbligo introdotta nel 2017, l’analisi indica che non necessariamente questo si traduce in un minor rischio di trasmissione, soprattutto per la presenza di ampie sacche di adulti non immunizzati.
  • Il numero di riproduzione stimato per il 2025 varia da 1,31 a 1,78 in tutte le regioni, in linea con la trasmissibilità stimata nei focolai del decennio precedente.

«Gli adulti non vaccinati contribuiscono in maniera sostanziale alla trasmissione del morbillo in Italia – scrivono gli autori nelle conclusioni -. Esiste una grande eterogeneità regionale nell’immunità: alcune regioni  mostrano basse coperture vaccinali nei bambini, mentre altre hanno una grande proporzione di adulti suscettibili. Questi risultati enfatizzano il bisogno di strategie vaccinali mirate, comprese campagne di recupero rivolte agli adulti».

L’Università di Bari chiude il corso di laurea per Tecnici di radiologia. La FNO TSRM e PSTRP: a rischio la tenuta del SSN

«Senza un piano strutturale per la formazione e il ricambio generazionale dei professionisti sanitari, il Servizio sanitario nazionale rischia non solo un progressivo indebolimento, ma anche, nel medio termine, di non riuscire a garantire standard adeguati di assistenza e qualità delle cure». È l’appello congiunto del Presidente della FNO TSRM e PSTRP, Diego Catania e della Presidente della Commissione di albo nazionale dei TSRM, Carmela Galdieri, a fronte delle recenti notizie in merito alla sospensione del corso di laurea in Tecniche di radiologia medica, per immagini e radioterapia presso l’Università di Bari.

La carenza di Tecnici sanitari di radiologia medica e, più in generale, di professionisti sanitari rappresenta un grave elemento di fragilità per il SSN, purtroppo ormai radicato e consolidato nel sistema. Tuttavia, la decisione di sospendere o accorpare corsi di laurea, o di offrire un numero di posti inferiore a quelli richiesti, non può che aumentare le tensioni già presenti. Tali scelte si inseriscono in una visione di programmazione evidentemente disallineata rispetto al reale fabbisogno della popolazione, con il paradossale risultato che, a fronte di ingenti investimenti di risorse per il parco tecnologico degli ospedali italiani, mancano i professionisti in grado di utilizzare gli strumenti innovativi a disposizione.

Gli effetti della crisi formativa in atto si possono già toccare con mano. L’assenza di un adeguato ricambio generazionale intacca la qualità dei servizi diagnostici e terapeutici, amplifica le diseguaglianze territoriali e spinge i giovani professionisti e aspiranti tali verso regioni più virtuose, favorendo, in alcuni casi, l’emigrazione all’estero senza prospettiva di rientro nel proprio territorio d’origine – o addirittura l’abbandono del percorso professionale. 

«Per tali ragioni – aggiungono Catania e Galdieri – chiediamo un intervento organico che parta da un monitoraggio nazionale approfondito della reale disponibilità di percorsi formativi per i TSRM e per le altre professioni sanitarie afferenti agli Ordini TSRM e PSTRP, evidenziando le carenze e i margini di intervento tempestivo. In seconda battuta, è necessario riattivare i corsi laddove siano stati tagliati o lasciati in sospeso. Dove l’offerta è minima, va potenziata. E ciò non può avvenire senza un adeguato coordinamento, per cui proponiamo l’istituzione di una regia fra Università, Regioni, Ministeri competenti e Ordini professionali, a garanzia di una programmazione concreta e coerente con i bisogni del Servizio sanitario nazionale». 

La Federazione nazionale, insieme alle Commissioni di albo e agli Ordini professionali, continuerà a monitorare con attenzione l’evoluzione del quadro formativo e a farsi parte attiva nel proporre soluzioni concrete, chiedendo con forza alle istituzioni nazionali e territoriali un impegno reale e non più rimandabile, al fine di rendere il SSN più attrattivo e qualificato, a tutela della salute dei cittadini. 

“La Nave” nel carcere di San Vittore, un modello terapeutico per la tossicodipendenza

Nel cuore del carcere di San Vittore a Milano esiste un reparto che sfugge agli stereotipi penitenziari. Si chiama “La Nave” e, sin dal 2002, rappresenta un modello virtuoso, ancor oggi unico in Italia, di trattamento avanzato per detenuti tossicodipendenti. Più che una struttura detentiva, La Nave si configura come una comunità terapeutica intramuraria, un luogo di transizione, che ‘naviga’ e che prova ad avviare un percorso di cura dentro un contesto, quello carcerario, dove la marginalità rischia di essere solo acuita.

Giuliana Negri

Abbiamo intervistato Giuliana Negri, responsabile clinica del reparto, medico psichiatra, titolare dell’Unità Semplice di Trattamento Avanzato “La Nave”, parte del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.

Quali sono gli indicatori clinici e psicologici principali che monitorate per valutare l’efficacia del percorso terapeutico nel reparto La Nave? Esistono metriche oggettive?

«I principali elementi oggettivi sono la partecipazione alle attività di gruppo, che costituiscono il fulcro del nostro intervento terapeutico. Valutiamo sia la presenza quantitativa sia la qualità dell’intervento, cioè il coinvolgimento attivo ed emotivo della persona. Osserviamo anche i comportamenti nel reparto, le interazioni con operatori e compagni e il benessere psicofisico complessivo durante la permanenza. Gli esami tossicologici vengono effettuati saltuariamente, senza preavviso e a scopo clinico, non con funzione di controllo costante come avviene nei Ser.D territoriali. Inoltre, nel contesto carcerario, questi strumenti hanno una valenza diversa e sono applicati con discrezione».

Come si accede al reparto? Quali sono i criteri di selezione?

«“La Nave” è un trattamento avanzato, attivato in seguito alla diagnosi di tossicodipendenza da parte del Ser.D penitenziario di primo livello. Gli utenti devono avere una certificazione formale e alcune caratteristiche cliniche: stabilità psichica (non accogliamo pazienti con gravi scompensi psichiatrici), una motivazione, anche minima, al trattamento, la capacità di mettere in discussione la propria tossicodipendenza. È fondamentale una conoscenza sufficiente della lingua italiana per partecipare ai gruppi. Inoltre, non devono essere detenuti definitivi, perché questi vengono di norma destinati alle case di reclusione».

Quanti pazienti accoglie oggi il reparto?

«La capienza ufficiale è di 60 posti, anche se siamo accreditati per 37. In realtà, vista la pressione del sovraffollamento, si arriva spesso a 70 pazienti. Attualmente siamo a 60, ma il numero varia molto a causa dell’elevato turnover, legato a trasferimenti, misure alternative o problemi disciplinari».

Quanto dura, mediamente, la permanenza di un paziente alla Nave?

«La permanenza minima per redigere una relazione clinica utile al percorso è di sei mesi, un tempo che ricalca quello delle comunità terapeutiche. Dopo due anni, il percorso viene considerato concluso. Alcuni restano per tempi più brevi (in attesa di domiciliari o trasferimenti), ma in generale tutti rimangono almeno sei mesi».

E dopo? Cosa succede a chi lascia la Nave?

«Se ottengono misure alternative, vengono presi in carico dal Ser.D territoriale, che può avviare programmi in comunità, in centri diurni o con percorsi individuali. In caso di trasferimenti in altre carceri, si cerca di proseguire il trattamento, preferibilmente a Bollate o a Opera, dove esiste anche il progetto di rinserimento sociale lavorativo “La Vela”, ispirato dal progetto riabilitativo “La Nave”».

Che tipo di relazioni si instaurano tra i pazienti all’interno del reparto?

«Alla Nave si crea un contesto relazionale unico. Le celle sono aperte dalle 8:30 alle 19, il che consente una continua interazione. Gli operatori sono presenti in modo costante, e nel weekend sono presente io, quando sono di guardia per il Ser.D. C’è un patto di adesione che definisce gli obiettivi comuni del reparto, e ciò favorisce collaborazione e sostegno tra i pazienti-ristretti. Abbiamo anche un giornale interno e altre attività che incentivano un senso di comunità. Naturalmente emergono conflitti, ma li affrontiamo e li elaboriamo insieme, evitando l’indifferenza e la rimozione».

Qual è la percentuale di stranieri nel reparto? E le fasce d’età prevalenti?

«Gli stranieri sono circa il 30%, ma la percentuale è in crescita. Provengono per lo più dal Nord Africa, ma ci sono anche persone dell’America Latina, del Centro Africa e dell’Asia. L’età media è di 37 anni, ma abbiamo un numero sempre più elevato di giovanissimi: circa il 40% ha tra i 18 e i 26 anni».

Avete mai registrato episodi di suicidio o autolesionismo?

«In oltre vent’anni, un suicidio, avvenuto prima della mia gestione. Da quando sono responsabile non abbiamo avuto eventi gravi. L’autolesionismo esiste, ma in misura molto inferiore rispetto ad altri reparti. Questo grazie alla presenza costante degli operatori, che permette di intercettare e contenere le crisi tempestivamente».

Quali attività svolgete, anche grazie al supporto di volontari?

«Abbiamo una stretta collaborazione con l’associazione “Amici della Nave”, composta da volontari con competenze professionali specifiche. C’è chi insegna yoga, chi gestisce il giornale del reparto, chi fa teatro o lingua inglese. Le attività terapeutiche sono condotte dai professionisti interni, mentre quelle riabilitative vengono co-gestite con i volontari. Questo modello integrato rende “La Nave” un unicum, non solo nel panorama carcerario milanese.

Esistono esperienze simili in Italia o all’estero?

«In Italia no, “La Nave” è l’unica unità operativa semplice con queste caratteristiche all’interno di una casa circondariale. Esistono progetti simili, come “La Vela” a Opera, ma sono molto più piccoli e non strutturati con la stessa precisione. All’estero non conosco esempi identici».

È un modello replicabile in altre strutture italiane?

«Per queste attività servono investimenti: in personale, in formazione e soprattutto in visione. Creare un contesto come “La Nave” significa credere in un percorso di cura precoce dentro il carcere, che non ha l’obiettivo di “guarire”, ma di avviare un cambiamento. “La Nave” è, metaforicamente, un ponte tra la devianza e la riabilitazione e sarebbe auspicabile che ne esistessero molte altre. I ragazzi ce lo chiedono spesso: “Perché non ci sono più Navi?”».

Nel 2002 fu fatto un investimento per creare questo reparto. Esiste una valutazione del “ritorno” in termini economici o sociali?

«Non esiste un dato ufficiale. Ma ci fu allora un gruppo di persone illuminate, direttori, operatori e dirigenti sanitari, che decisero di credere in un modello nuovo, innovativo e coraggioso. Non so se oggi ci sia la stessa disponibilità mentale a investire su esperienze simili. In termini economici non saprei dire quanto sia costato, ma certamente l’impatto sociale è stato enorme. “La Nave” è diventata un modello, un presidio di umanità dentro il carcere. E questo, forse, è il miglior ritorno che si possa immaginare».

West Nile: 89 casi da inizio sorveglianza, 8 decessi

Salgono a 89 in Italia i casi confermati di infezione da West Nile Virus (WNV) nell’uomo (32 nel precedente bollettino) con 8 decessi. Lo afferma il terzo bollettino della sorveglianza pubblicato oggi.

Tra i casi confermati dall’inizio della sorveglianza al 30 luglio 40 si sono manifestati nella forma neuro-invasiva (2 Piemonte, 1 Lombardia, 3 Veneto, 1 Emilia-Romagna, 23 Lazio, 10 Campania), 2 casi asintomatici identificati in donatori di sangue (1 Veneto, 1 Campania), 46 casi di febbre (1 Lombardia, 5 Veneto, 35 Lazio, 4 Campania, 1 Sardegna) e 1 caso asintomatico (1 Campania). Sono stati notificati 8 decessi (1 Piemonte, 2 Lazio, 5 Campania). La letalità, calcolata sulle forme neuro-invasive fin ora segnalate, è pari al 20% (nel 2018 20%, nel 2024 14%). Salgono a 31 le Province con dimostrata circolazione del WNV appartenenti a 10 Regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia  e Sardegna.

«Stiamo monitorando la situazione con molta attenzione insieme al Ministero, della salute, alle Regioni e agli Istituti zooprofilattici – sottolinea Anna Teresa Palamara, che dirige il dipartimento di malattie infettive dell’ISS -. Tutte le misure sono in campo, comprese quelle a protezione dei trapianti e delle trasfusioni. Oggi non siamo in una situazione di allarme, ricordiamo che l’infezione non si trasmette da persona a persona ma solo attraverso le punture di zanzare. Per questo è importante che la popolazione utilizzi  tutte le misure di prevenzione, da quelle per evitare la proliferazione delle zanzare a quelle personali per proteggersi dalle punture. Ricordiamo anche di rivolgersi al proprio medico in caso di febbre superiore a 38° per effettuare la diagnosi».

Il confronto con le stagioni precedenti

Nel 2024 ci sono stati 484 casi (266 nella forma neuro invasiva), con 36 decessi. Nel 2023 i casi notificati sono stati 394 (195 nella forma neuroinvasiva), con 32 decessi. Il 2022 è l’anno in cui ci sono stati più casi dall’inizio della sorveglianza, 728 (330 nella forma neuroinvasiva) con 51 decessi. 

Per approfondire consultare la pagina dedicata.

Altre arbovirosi

Dal 1 gennaio al 29 luglio 2025 al sistema di sorveglianza nazionale risultano: 98 casi confermati di Dengue (95 casi associati a viaggi all’estero e 3 casi autoctoni, età mediana 41 anni, 55% di sesso maschile, nessun decesso); 32 casi confermati di Chikungunya (30 casi associati a viaggi all’estero e 2 casi autoctoni, età mediana 46,5 anni, 53% di sesso maschile, nessun decesso); 4 casi di Zika virus (tutti importati, nessun decesso); 23 casi di TBE (tutti autoctoni, età mediana 52 anni, 57% di sesso maschile, nessun decesso); 38 casi di Toscana virus (tutti autoctoni, età mediana 59,5 anni, 74% di sesso maschile, nessun decesso).

SIti: «Nessun allarme, casi in linea con anni precedenti»

«La diffusione del West Nile virus e il numero di casi umani registrati in queste settimane estive del 2025 è in linea con gli anni precedenti, per cui non vi è nessun segnale di allarme – afferma Enrico Di Rosa, Presidente della Società Italiana d’Igiene (SItI) -. In Italia, inoltre, la circolazione del virus West Nile, e i conseguenti casi in ambito veterinario e umano, non sono una novità. Il Piano Nazionale Arbovirosi 2020-2025, elaborato dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità, prevede infatti una sorveglianza specifica per la patologia, in particolare nel periodo di massima presenza del vettore, tra maggio e novembre, con un approccio integrato tra Sanità umana e veterinaria ‘One Health’».

«Come noto – prosegue l’esperto -, nella maggior parte dei casi, l’infezione è asintomatica (80%) o paucisintomatica (20%), mentre nell’1% dei casi può insorgere una sintomatologia neurologica e, in circa 1 caso su 1000, un’encefalite, con forme neuroinvasive, dove i soggetti anziani e immunodepressi o con comorbidità sono i più colpiti. Attualmente non esiste né una terapia specifica né un vaccino preventivo. È essenziale, pertanto, proteggere i soggetti più vulnerabili raccomandando l’utilizzo di repellenti e vestiti il più possibile coprenti quando si trascorrono ore all’aperto, dotarsi di zanzariere a livello domestico e, per coloro che hanno piante e giardini, evitare ristagni d’acqua e l’eventuale utilizzo di prodotti larvicidi. In Italia, storicamente, la maggior parte dei casi si riscontra nel Nord Italia, in particolare nell’area del Delta del Po. Tuttavia, come si evince dal Bollettino Nazionale Sorveglianza Integrata del West Nile e Usutu virus del 31 luglio 2025, rilasciato in data odierna, in queste settimane sono stati registrati alcuni casi, anche severi, tra Lazio e Campania che hanno portato ad una rapida attivazione delle Regioni, ASL e Amministrazioni comunali per interventi straordinari di disinfestazione e per assicurare la sicurezza di donazioni di sangue, organi e tessuti attraverso test NAT molecolari».

Testo Unico Farmaceutica: i primi commenti da FOFI, Egualia e ADF

Stamattina si è svolto a Roma il convegno “Verso il Testo Unico della legislazione farmaceutica”, durante il quale, dopo anni di attesa, è stato presentato lo schema di disegno di legge delega al Governo per la redazione del TU. Un intervento per semplificare, razionalizzare e rendere più efficace il complesso quadro normativo vigente del settore.

Mandelli (FOFI): «Verso assistenza più moderna e accessibile. Confermato ruolo centrale dei farmacisti nella riforma»

«Accogliamo con grande orgoglio le parole di apprezzamento rivolte oggi ai farmacisti italiani dai rappresentanti delle Istituzioni e di tutti gli stakeholder dell’Ecosistema Salute coinvolti nella definizione del nuovo Testo Unico della legislazione farmaceutica. Si tratta di un’ulteriore, significativa conferma del valore dell’apporto dei farmacisti nel migliorare e rendere più equo l’accesso alle cure e ai servizi sanitari, contribuendo a costruire una sanità realmente più vicina ai cittadini, a tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito. Un ringraziamento sentito va al Sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, per la visione lungimirante e per il senso di responsabilità con cui ha ribadito l’importanza di una riforma organica volta a semplificare e modernizzare l’attuale quadro normativo, in linea con le reali esigenze dei pazienti, dei professionisti della salute e dell’intera filiera farmaceutica». Lo ha dichiarato Andrea Mandelli, Presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (FOFI), intervenendo al convegno “Verso il Testo Unico della legislazione farmaceutica”, svoltosi questa mattina presso la Camera dei deputati.

Andrea Mandelli
Andrea Mandelli

«L’approccio partecipativo promosso dal Governo – ha aggiunto – rappresenta un segnale forte di spinta al cambiamento, in risposta all’esigenza, condivisa da tutti gli attori del Sistema Salute, di disporre di norme chiare, coerenti e concretamente applicabili, in grado di agevolare il lavoro dei professionisti, e di promuovere innovazione e crescita sostenibile. Le recenti novità introdotte in materia di semplificazione della prescrizione e dispensazione dei farmaci per i pazienti cronici, e l’impulso dato al processo di digitalizzazione dell’assistenza farmaceutica, sono un passo importante nella prospettiva di una semplificazione dell’accesso alle cure, con benefici sull’appropriatezza e sull’aderenza terapeutica quali obiettivi primari del SSN».​

«La Federazione, in qualità di ente sussidiario dello Stato, conferma la piena disponibilità a portare il proprio contributo al processo di revisione della normativa in corso, con l’obiettivo di rendere il servizio farmaceutico sempre più efficiente e accessibile, garantendo la centralità dei bisogni dei pazienti», ha concluso il presidente Mandelli.

Collatina (Egualia): «Payback, appalti e prezzi per la tenuta della filiera»

«Eliminazione del payback sugli acquisti diretti, effettuati dal SSN tramite gara, che oggi incide fino al 18% del fatturato; adozione dell’accordo quadro multi‑aggiudicatario per le gare pubbliche riferite ai prodotti fuori brevetto, per garantire una risposta strutturale al fenomeno delle carenze; adeguamento dei prezzi dei medicinali inferiori ai 5 euro per tutelare l’accesso a terapie essenziali a basso costo; eliminazione del payback dell’1,83% sulla convenzionata, che per il comparto dei fuori brevetto erode margini già ridotti».

Sono queste le richieste essenziali e non più rinviabili avanzate da Stefano Collatina, presidente di Egualia (l’associazione delle aziende produttrici di farmaci equivalenti, biosimilari e Value Added Medicines) nel corso del convegno “Verso il Testo Unico della Legislazione Farmaceutica” organizzato oggi a Montecitorio dal sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, per presentare l’iniziativa di uno schema di Ddl delega per il Testo Unico della legislazione farmaceutica, con l’obiettivo di riordinare e razionalizzare l’intera normativa.

Stefano Collatina

«Condividiamo e apprezziamo la volontà di riordinare la normativa vigente del settore, promuovere un sistema più coerente con al centro i bisogni dei cittadini e garantire sostenibilità ed efficienza dell’intera filiera espressa dal sottosegretario Gemmato – ha proseguito il presidente di Egualia – ma ribadiamo che senza gli interventi elencati il settore non sarà più sostenibile e potrebbe cessare di svolgere il proprio ruolo essenziale a vantaggio del SSN e del Paese. Un sistema, non dimentichiamolo, che tratta milioni di pazienti cronici ogni giorno in farmacia ed ospedale con una frazione molto piccola della spesa farmaceutica».

«Se non ci fossero stati i farmaci accessibili, tra il 2016 e il 2024 la spesa farmaceutica sarebbe stata più elevata di 7,4 miliardi di euro. Le trasformazioni a livello internazionale le crisi dell’ultimo decennio hanno confermano il ruolo dei farmaci equivalenti e biosimilari come pilastro della sicurezza economica e geopolitica italiana. In questo scenario, gli equivalenti e i biosimilari non sono soltanto medicinali a basso costo – ha concluso Collatina – costituiscono un asset strategico che assicura terapie di qualità a milioni di pazienti, decisivi per la sostenibilità del SSN e per l’occupazione qualificata sul territorio». 

Farris (ADF): «Da parte dei Distributori intermedi pieno sostegno al TU. Riforma indispensabile per il settore e per il SSN»

«Desideriamo innanzitutto ringraziare il Sottosegretario Marcello Gemmato per l’invito e per aver voluto promuovere, anche in questa occasione, un importante momento di dialogo e confronto tra Istituzioni e attori della filiera farmaceutica – ha dichiarato Walter Farris, presidente di ADF, aderente a Confcommercio-Imprese per l’Italia -. Abbiamo accolto con favore, già lo scorso maggio, il progetto di redazione di un Testo unico della normativa farmaceutica, e confermiamo oggi la nostra piena disponibilità a contribuire a questa riforma che consideriamo indispensabile per il settore e per il sistema sanitario del Paese».

Walter Farris

ADF ha sottolineato, nel corso dell’evento, l’importanza di affrontare con spirito costruttivo la revisione di un quadro normativo che, a causa di stratificazioni e norme datate, spesso si presenta disomogeneo e complesso, generando incertezza applicativa e ostacolando l’efficienza operativa degli operatori del comparto. La semplificazione e l’armonizzazione della legislazione sono quindi condizioni essenziali per garantire innovazione, competitività e un accesso sicuro ed equo ai farmaci per tutti i cittadini.

«Siamo convinti – ha aggiunto Farris – che solo attraverso una cornice normativa chiara, proporzionata e condivisa potremo rafforzare l’intera filiera, superare le disomogeneità territoriali e contribuire alla sostenibilità dell’intero sistema farmaceutico nazionale. In questo senso, la disponibilità al dialogo e alla collaborazione istituzionale dimostrata dal Ministero della Salute e dal Sottosegretario Gemmato è un segnale importante per il nostro settore».

ADF ha rinnovato quindi il proprio impegno a lavorare in sinergia con le Istituzioni e con tutte le componenti della filiera farmaceutica, al fine di contribuire, con competenza ed esperienza, alla costruzione di un Testo unico capace di affrontare efficacemente le sfide presenti e future, nel comune obiettivo di una sanità più accessibile, efficiente e al servizio della salute pubblica.