Giurdanella (Fnopi): “L’infermiere al centro della sanità digitale”

L'infermiere di famiglia e di comunità può diventare il collante della sanità digitale, come attivatore di rete e case manager dell’intero processo, per scongiurare il rischio della frammentazione

Per la prima volta in Italia, qualche giorno fa è stato presentato un documento condiviso da ben 16 società scientifiche e sanitarie in materia di telemedicina. Tra queste, la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi). Qual è il ruolo degli infermieri nella sanità digitale e quale sarà il loro contributo al progetto? Ne parliamo con Pietro Giurdanella, consigliere del comitato centrale e referente sanità digitale della Fnopi.

Come si sta muovendo la Fnopi in un’ottica di sanità digitale e telemedicina?

Pietro Giurdanella

La Fnopi sta approfondendo il tema della sanità digitale dal punto di vista degli infermieri in quanto referenti della teleassistenza e componenti di un’equipe multidisciplinare; a tal proposito stiamo lavorando a un documento quanto più possibile esaustivo. Al centro dell’approfondimento c’è la relazione con la persona assistita e il suo coinvolgimento nell’ambito della rete familiare. La sanità digitale ha, sì, aspetti di tipo tecnico, ma necessita di empowerment del cittadino, funzionale per una piena attuazione della transizione in corso. A nostro parere questa trasformazione ha a che fare più con le persone che con il digitale.

Siamo molto soddisfatti del tavolo di lavoro avviato con i vari attori, dal Ministero alla Regione Puglia alle altre società scientifiche, perché riteniamo fondamentale questo collegamento fra la componente politica-gestionale del Ministero, che dà gli indirizzi, e i professionisti che vanno coinvolti. Così come i cittadini. Le ricerche condotte in questo settore hanno dimostrato che la maggior parte delle esperienze di innovazione tecnologica implodono perché non c’è una reale implementazione nel contesto organizzativo: la digitalizzazione non può ridursi come una mera evoluzione dell’attuale sistema burocratico, sostituendo la carta con un computer.

Cos’è per voi la sanità digitale?

La trasformazione dei servizi socio-sanitari in chiave digitale connettendo e integrando luoghi, ruoli e saperi del sistema salute. Sosteniamo un modello di prossimità nel quale il cittadino, grazie alla tecnologia, alla tele-cooperazione tra i professionisti, alla condivisione dei dati e delle informazioni, si sentirà sempre più al centro di una rete integrata di servizi socio sanitari e assistenziali.

Una piena ed esaustiva trasformazione digitale passa dall’implementazione degli strumenti digitali in prossimità e al domicilio del cittadino

La trasformazione in “telemedicina” di una visita specialistica o di una prestazione sanitaria oggi effettuata in ospedale è uno degli elementi in campo. Ma una piena ed esaustiva trasformazione digitale passa necessariamente attraverso l’implementazione degli strumenti digitali in prossimità e al domicilio del cittadino: è qui che la sanità digitale può trovare una valenza diversa. Ed è qui che entra in gioco l’infermiere e in particolar modo l’infermiere di famiglia e di comunità, la nuova figura istituita con il DM 77.

Quali sono le maggiori criticità che al momento si trovano ad affrontare nel quotidiano gli infermieri in ambito di sanità digitale?

La principale è la frammentazione dei luoghi, dei contesti e delle risposte assistenziali. In questo pensiamo che la sanità digitale possa rivelarsi estremamente preziosa per aiutare i pazienti cronici oggi in Italia, che sono milioni e tenderanno purtroppo ad aumentare. Spesso hanno più patologie croniche insieme e il problema concreto è appunto la frammentazione di tipo prestazionale, cioè che il cittadino e il familiare o caregiver debbano fare tante tappe per gestire il percorso di cura.

Immaginiamo un paziente cardiopatico che ha anche problemi sia renali che metabolici e ortopedici. in questo momento ha con sé la prescrizione di un esame strumentale, di una ulteriore visita specialistica, di prestazioni terapeutiche. Dobbiamo unire tutti questi “pezzi”: è la prima funzione della sanità digitale. In questa chiave, il collante diviene l’infermiere di famiglia e di comunità, quale attivatore di rete e case manager dell’intero processo.

Oggi ci sono dei dispositivi che consentono di misurare al domicilio del paziente i valori della coagulazione del sangue: l’infermiere può trasmettere in diretta il risultato allo specialista e il paziente può ricevere la terapia sul momento, a casa propria. Oppure, ancora, pensiamo a un paziente che ha bisogno di un presidio, come ad esempio i sacchetti da stomia. Il percorso oggi prevede la prescrizione cartacea da parte dello specialista, l’approvvigionamento da parte dello stesso paziente o familiare che deve recuperare fisicamente in farmacia i presidi poi gestiti dall’infermiere a domicilio; ma è una filiera che in un contesto digitale si potrebbe fare in tre clic ed avere i presidi direttamente a casa. Qui si inserisce un tema di interoperabilità, di interconnessione e di usabilità. Ma se invece rimane lo spezzettamento, procediamo cioè alla digitalizzazione di singole parti di processo non connesse, stiamo informatizzando secondo i vecchi schemi burocratici. E questo non può fare la differenza.

Ci sono dei punti deboli in questo progetto di digitalizzazione?

Se non inseriamo la persona assistita e il caregiver all’intero del processo di trasformazione, rischiamo di creare una nuova fragilità, quella digitale

Per noi sono estremamente importanti e prestiamo grande attenzione alle fragilità della persona assistita. Se in questa fase non inseriamo la persona assistita e il suo caregiver all’intero del processo di trasformazione, rischiamo di creare una nuova fragilità, quella digitale. Penso a un cittadino che vive in aree rurali, dove la connessione è carente e non ha sistemi digitali. C’è il pericolo che si generi una vera e propria disuguaglianza nell’accesso alle cure, che proprio chi ha più bisogno di sanità digitale non riceva assistenza. Anche in questo senso l’infermiere di famiglia di comunità può essere un nodo cruciale per l’attivazione di una rete. Ecco perché siamo fiduciosi del progetto che stiamo portando avanti con gli altri attori: come professionisti vogliamo essere coinvolti, perché riteniamo di avere una chiave di lettura funzionale alla messa a terra della sanità digitale. Vogliamo essere una risorsa ed essere proattivi, ovviamente sulla base delle regole date: siamo nei luoghi operativi, sappiamo dove sono le criticità e intendiamo offrire il nostro contributo per superarle.

Oltre al rischio della fragilità digitale, stiamo riscontrando due fenomeni da governare. Il primo è il tema dell’aderenza terapeutica, che cala drammaticamente man mano che ci si allontana dal presidio ospedaliero verso il domicilio. Anche da questo punto di vista la sanità digitale può rivelarsi molto utile, facilitando il percorso del paziente, accompagnato dall’infermiere di comunità, fra prevenzione, piano di cure, prescrizioni, gestione dei farmaci e dei presidi.

Il secondo punto è rappresentato dalle cosiddette transitional of care, le cure di transizione, ovvero in che modo colleghiamo in termini assistenziali i diversi setting di cura. Faccio l’esempio di un paziente che ha subito un intervento chirurgico, poi trasferito in un reparto di post acuzie e infine deve uscire dall’ospedale, ma il suo bisogno di cure non è terminato: magari viene spostato in un ospedale di comunità o in una RSA prima di tornare al domicilio. Se tra tutti questi luoghi di cura c’è frammentazione, c’è il rischio di un impatto sulla qualità e sugli esiti assistenziali: un’interconnessione di tipo digitale può diventare un’opportunità importante di gestione del paziente.

Come si collocano questi scopi nel quadro della relazione con il paziente?

Durante la pandemia ci siamo resi conto di quanto sia difficile per esempio sostenere i bambini e i ragazzi in Dad. Immaginiamo una persona ottantenne che vive da solo con un caregiver e deve gestire i suoi problemi di salute con le modalità previste dalla telemedicina. In questo senso l’infermiere di famiglia e di comunità può sostenere una funzione relazionale, formativa e gestionale del rapporto di cura, coerentemente con il Codice Deontologico degli infermieri, che sancisce, all’art. 4: “il tempo di relazione è tempo di cura”. Il tutto in una chiave anche multidisciplinare e di “connected – care” con gli altri professionisti sanitari.

Cosa manca ancora?

La formazione è fondamentale, ma non deve essere frammentata. Dobbiamo immaginare un’aula popolata dai diversi professionisti in campo

Formazione. Dobbiamo formare operatori e cittadini in una formazione continua, non oggi per domani: bisogna mettersi nell’ottica in cui si investono tempo e risorse nel tempo. Inoltre non si deve trattare di una formazione frammentata, in cui ogni singolo professionista viene formato in maniera separata. Noi abbiamo attualmente una formazione “a silos”, caratterizzata dallo studio e dall’approfondimento per singole realtà disciplinari. Dobbiamo essere capaci di superare questa condizioni ed immaginare un’aula di formazione popolata dai diversi attori in campo.

C’è anche il tema della comunicazione, perché non c’è cambiamento senza empowerment, tanto dei cittadini quanto dei professionisti. Se non spieghiamo loro la necessità di questo cambiamento, è chiaro che si continua a prediligere il percorso già conosciuto, perché è più semplice. Cambiare significa investire energie. La trasformazione digitale è prima di tutto una trasformazione di senso che coinvolge i cittadini, i professionisti e i modelli organizzativi.

In ultimo, ci sono da approfondire gli aspetti legali e della responsabilità professionale. Dobbiamo capire da un lato come agire nel rispetto della privacy in modo da disporre dei dati necessari per le cure, e d’altro canto capire in che modo i professionisti sanitari sono responsabili in un ambiente digitale. Noi ci poniamo in chiave non critica ma proattiva, partendo dalle criticità ma fornendo stimoli e risposte, quindi ben venga il tavolo con chi ha il potere decisionale perché riteniamo di poter essere una grande risorsa per il Servizio Sanitario Nazionale.

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Adriana Riccomagno
Giornalista professionista in ambito sanitario