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Dazi, Egualia: «Se non confermata esenzione farmaci, sarebbe un boccone amaro per i pazienti USA»

«I dazi sui prodotti farmaceutici danneggerebbero sia l’industria statunitense che quella europea ma soprattutto danneggerebbero i pazienti: l’esenzione per questi prodotti era stata concordata dalle economie avanzate aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) proprio per garantire il massimo accesso alle cure essenziali a livello planetario. Se l’esenzione fosse confermata sarebbe una bella notizia perché confermerebbe un principio e un valore etico condiviso da decenni dai Paesi del mondo avanzato».

Stefano Collatina, presidente di Egualia (associazione italiana delle aziende produttrici di farmaci equivalenti, biosimilari e Value Added Medicines), commenta così la scelta annunciata in nottata da Donald Trump sulle nuove politiche tariffarie, sottolineando però che «il reale impatto delle misure per i comparto farmaceutico  potrà essere valutato appieno solo nei prossimi giorni».

L’Ordine esecutivo pubblicato subito dopo l’annuncio dalla Casa Bianca conferma un dazio aggiuntivo del 10% su tutti i prodotti di importazione, declina tassi differenziati   i paesi elencati nell’Allegato I  (20% per l’Europa)  ma reca anche un Allegato II che elenca prodotti – anche farmaceutici – che “non saranno soggetti alle aliquote di dazio ad valorem ai sensi del presente ordine”, anche se si specifica che “le descrizioni dei prodotti contenute nell’Allegato sono fornite solo a scopo informativo e non intendono in alcun modo delimitare l’ambito dell’azione”.

Se non si conferma l’esenzione per i prodotti farmaceutici, gli eventuali dazi imposti anche su questi beni all’Europa finirebbero per aumentare la dipendenza degli USA dalla Cina per i medicinali essenziali

«In particolare il settore dei farmaci generici-equivalenti e biosimilari opera in un mercato altamente competitivo, con volumi elevati e margini molto bassi – sottolinea Collatina –. Negli USA i farmaci generici rappresentano circa il 90% dei farmaci distribuiti e il valore complessivo delle vendite è diminuito di 6,4 miliardi di dollari in cinque anni, nonostante una crescita in volumi. In una situazione del genere, l’introduzione di dazi sui medicinali e sui princìpi attivi in ingresso negli Stati Uniti va ad incidere su una catena di fornitura già stressata e può tramutarsi in un boomerang. Gli Usa importano 70% dei princìpi attivi in volumi (15% da Cina, 25% da Ue e 30% da India) e per circa 700 molecole di larghissimo utilizzo per le malattie croniche l’Europa (e l’Italia e tra i principali attori europei) è l’unico fornitore, il resto proviene da India e Cina. Se non si conferma l’esenzione per i prodotti farmaceutici, gli eventuali dazi imposti anche su questi beni all’Europa finirebbero per aumentare la dipendenza degli USA dalla Cina per i medicinali essenziali. Riportare le produzioni da una regione del globo a un’altra richiede molti anni e non sempre è praticabile. Peraltro non possiamo dimenticare il ruolo della produzione farmaceutica italiana in conto terzi (CMO / CdMO): insieme al Governo italiano e alle istituzioni europee dobbiamo fare il possibile per tutelare questa specificità italiana dalla guerra commerciale che si sta scatenando. Non vorremmo che indirettamente i dazi generalizzati questo settore cruciale per la nostra industria».

Stefano Collatina

«Che gli Stati Uniti vogliano rafforzare la propria manifattura farmaceutica e le proprie le catene di fornitura è comprensibile. Ed è lo stesso obiettivo che si è posta l’UE con l’avvio della riforma farmaceutica, del Critical Medicines Act e il Biotech Act, ma questo andrà a vantaggio e non a danno del diritto dei pazienti ad accedere ai medicinali di cui necessitano – conclude Collatina –. L’obiettivo dell’Europa e del Governo Italiano deve essere quello di puntare sul mantenimento e sulla crescita di competitività e capacità manifatturiera (il Critical Medicines Act è una opportunità se ben implementato) mantenendo al contempo la massima apertura al commercio e alla cooperazione internazionale».

Acquisti in sanità: serve più coordinamento per vincere il confronto con l’innovazione

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Le stazioni appaltanti regionali e Consip hanno una funzione strategica nel bilanciare innovazione, sostenibilità economica e trasparenza negli acquisti sanitari. Con il Nuovo Codice degli Appalti, il sistema evolve: non più solo procedure rigide e standardizzate, ma un dialogo più dinamico con il mercato, capace di ripensare modelli e processi d’acquisto in un’ottica di maggiore efficienza e competitività.

L’eccessiva frammentazione tra le Regioni e la rapida avanzata della tecnologia – tra farmaci innovativi e dispositivi medici sempre più sofisticati – hanno acceso il dibattito su come rendere gli acquisti più efficienti e coordinati. Il tema non è solo di governance, ma di visione: come garantire procedure omogenee, rapide ed efficaci senza sacrificare la qualità?

La standardizzazione dei processi e il buon uso dell’intelligenza artificiale possono essere una buona modalità per avviare processi più “scorrevoli” per pazienti e operatori sanitari

Un nodo fondamentale è anche la gestione dei dati sanitari. Il potenziale informativo è enorme, ma l’assenza di interoperabilità tra le diverse piattaforme regionali e aziendali crea compartimenti stagni che rallentano l’analisi e l’ottimizzazione dei processi.

Analizzarli nel modo giusto significa migliorare le terapie, ridurre gli errori nelle prescrizioni e aprire la strada a una medicina sempre più personalizzata. La loro importanza va ben oltre la semplice gestione amministrativa: sono il motore della medicina di precisione, dello sviluppo tecnologico e di un’assistenza più attenta ai bisogni delle persone.

Ma c’è un passaggio sostanziale da compiere: spostare il focus dal mero controllo della spesa alla valorizzazione dei dati. Solo così si potranno migliorare le cure, aumentare l’appropriatezza dei trattamenti e avere una visione più ampia e integrata del sistema sanitario.

L’obiettivo? Un modello più efficiente, efficace e davvero centrato sulle persone. Serve quindi un cambio di prospettiva. Per superare la frammentazione, servono sistemi interoperabili, formazione adeguata per gli operatori e un approccio che punti al valore acquisito e non soltanto ai costi.

Investire nei dati non è solo una scelta tecnologica, ma una strategia a lungo termine per garantire un sistema sanitario più solido.

Ne hanno parlato a TrendSanità Massimo Caruso, Segretario generale AiSDeT (Associazione Italiana di Sanità Digitale e Telemedicina) e Maria Ernestina Faggiano, Presidente del Collegio dei Sindaci SIFO (Società Italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici).

Innovazione e acquisti sanitari: il peso strategico delle stazioni appaltanti

Massimo Caruso

«Le stazioni appaltanti regionali – afferma Caruso – sono nate proprio con l’obiettivo di garantire e accompagnare lo sviluppo di processi innovativi di acquisto coniugando la maggiore trasparenza nelle metodologie di gara e la sostenibilità. Ma c’è di più, le stazioni appaltanti regionali sono un vero e proprio strumento strategico nel contesto delle politiche regionali di sviluppo economico. La spinta delle Regioni verso una più spiccata autonomia e la debolezza degli organi di coordinamento nazionale, tuttavia, hanno dato origine, nella situazione attuale, a una evidente eterogeneità di comportamento delle stazioni appaltanti per quanto riguarda le modalità di approccio alle gare e agli stessi processi di acquisto, creando una asimmetria che non giova al mercato, come nel caso delle procedure value based, diffuse a macchia di leopardo.

L’obiettivo dei prossimi anni sarà dunque quello di avviare un coordinamento più deciso tra le stazioni appaltanti per la condivisione di processi più omogenei, per un trasferimento delle best practice e per una condivisione dei dati e delle informazioni necessarie a migliorare la ricaduta di valore degli appalti nelle stesse regioni e, nell’insieme, per il Paese».

Nuovo Codice degli Appalti: opportunità e ostacoli nel settore sanitario

Il D.Lgs. 209/2024, entrato in vigore il primo gennaio 2025, ha affrontato le criticità che erano emerse appunto durante l’applicazione del Nuovo Codice degli appalti, venendo incontro anche alle richieste di modifica da parte dell’Unione Europea e introducendo dei correttivi con cui si intende semplificare e razionalizzare il quadro normativo.

«Le “Nuove disposizioni che modificano il D.Lgs.36/2023” – prosegue Caruso – rettificano oltre 70 articoli del Codice Appalti, intervenendo in molti ambiti, dalla tutela dell’equo compenso nelle gare di progettazione al meccanismo di revisione dei prezzi, alla digitalizzazione dei contratti pubblici, alla tempistica delle procedure di appalto e di concessione, agli affidamenti diretti e deroga al principio di rotazione alle garanzie a corredo dell’offerta fino agli accordi quadro.
Un accenno è rivolto a una maggiore tutela delle micro, piccole e medie imprese (MPMIP), potenziando quanto già previsto nel Nuovo Codice degli Appalti in merito alla disciplina del sottosoglia, alle  misure di favore per l’accesso ai grandi appalti, alla suddivisione in lotti, al dimezzamento delle garanzie provvisorie fino alla valorizzazione del principio di prossimità tra i criteri di aggiudicazione».

Sanità e acquisti: perché serve più coesione tra le Regioni?

«Per quanto riguarda l’acquisto dei farmaci, la frammentazione regionale è meno incisiva, fatto salvo il tema dei processi di acquisto che concerne i farmaci biosimilari. Il vero problema riguarda il processo di acquisto dei DM, che sono numerosissimi e in continua evoluzione tecnica e tecnologica.

Il nodo centrale in questo caso è quello della più corretta individuazione dei fabbisogni e dell’appropriatezza e soprattutto del potenziamento del governo dei dati in modo puntuale e con l’utilizzo di sistemi di AI che meglio possono, incrociando le informazioni, offrire un quadro decisamente più chiaro delle necessità di acquisto, della divaricazione dei prezzi rispetto ai reali bisogni e tra regione e regione, e dare conto delle possibili zone di opacità» – conclude Caruso.

Come bilanciare spesa e accesso alle cure?

Maria Ernestina Faggiano

«Quello della sostenibilità è un concetto che presuppone l’uso appropriato delle risorse a favore dell’innovatività e dell’eticità; pertanto, penso che la semplificazione dei percorsi di cura e la loro ottimizzazione sia il punto di partenza per equilibrare la spesa con l’accesso etico e paritario alle cure» – ci spiega Faggiano.

Dal punto di vista prettamente clinico-terapeutico rinforzare le attività di prevenzione significa investire in salute e sostenere il SSN, che, per esempio, nel caso delle patologie infettive, ha sfide quasi insormontabili da affrontare. In particolare, infatti, basterebbe tener conto del PNCAR 2022-2025 e del Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025, per ottenere risultati clinici sostenibili che permetterebbero ad una più ampia platea di pazienti di curarsi con terapie innovative.

Se si pensa ai dispositivi medici, poi, rendere più stringente e ubiquitario il monitoraggio, per esempio, degli usi nelle sale operatorie sarebbe un modo semplice e risolutivo di permettere ai pazienti più fragili e complessi di essere curati con gli ultimi “ritrovati” tecnologici».

Farmacisti, provveditori e clinici: una sinergia per equità ed efficacia in Sanità

«L’interdisciplinarietà è vera, secondo me, solo se i singoli si parlano e si ascoltano, cioè diventano un coro che esegue una melodia con tecnica armonica perfetta – conclude Faggiano.

L’interdisciplinarietà può diventare il motore della sostenibilità

Questo vuol dire che la specifica professionalità può affrontare la stessa problematica con competenze diverse, ma con identico obiettivo: curare appropriatamente ogni paziente. Le gare per farmaci e dispositivi medici sono l’esempio più semplice, ma anche l’uso di cartelle elettroniche condivise migliora la comunicazione tra operatori sanitari e con essa anche efficacia dell’attività clinica e lo spreco di prescrizioni inutili.

Di sicuro non è facile dialogare, però, la formazione congiunta tra coloro che si interessano di salute e sanità e la volontà di rendere agevoli i percorsi di cura possono fare dell’interdisciplinarietà il motore della sostenibilità».

Ricerca e futuro: il contributo dell’industria farmaceutica per la salute di domani

«Sono 24.000 le molecole oggi in sviluppo nel mondo, secondo recenti dati Citeline, metà di sintesi chimica, metà biotecnologica. Con previsioni di investimento globale in R&S da parte delle aziende farmaceutiche di 2.000 miliardi di dollari tra il 2025 e il 2030. E l’Italia ha le capacità di attrarne una parte, grazie alle sue molte eccellenze, pubbliche e private. Nel 2024 l’industria farmaceutica ha investito oltre 2 miliardi di euro nel Paese in ricerca e sviluppo e altrettanti in impianti di produzione ad alta tecnologia e digitalizzazione. Una quota pari al 7% del totale degli investimenti, in crescita del 21% negli ultimi 5 anni (+4% in media all’anno). Gli addetti R&S, pari a 7.300, sono in aumento del 3% rispetto al 2023, equivalenti a oltre il 10% del totale degli addetti. E oggi in Italia se 1 milione di persone in più sopravvive dopo una diagnosi di tumore in dieci anni, se in 20 anni la mortalità totale è diminuita del 25% e quella per patologie croniche del 35%, se più di 270 mila persone sono guarite dall’epatite C, se sono disponibili oltre 200 farmaci orfani, lo si deve anche agli straordinari sforzi fatti dalla ricerca farmaceutica», dichiara Marcello Cattani, Presidente di Farmindustria nel corso del convegno di oggi, che ha il patrocinio del Ministero dell’Università e della Ricerca. L’evento, dal titolo “Ricerca e futuro. Il contributo dell’industria farmaceutica per la salute di domani”, si è svolto a Roma, presso l’Auditorium della Conciliazione.

Secondo Anna Maria Bernini, Ministro dell’Università e della Ricerca, «il settore farmaceutico italiano è sinonimo di coraggio, spirito d’iniziativa, esperienza e visione del futuro. Rappresenta un motore di crescita economica per l’intero Paese. Università, ricerca e industria farmaceutica non possono che essere alleati strategici. Perché la formazione senza applicazione pratica resta sterile erudizione, la ricerca senza sbocchi imprenditoriali si ferma in laboratorio e l’impresa senza nuove idee finisce per stagnare. Sono tre anelli di una stessa catena, i pilastri su cui si regge l’ecosistema delle Life Sciences. E su questi continueremo a investire per costruire un futuro di crescita e progresso per il nostro Paese».

«Ricerca e Sviluppo sono le leve principali  su cui puntare per essere protagonisti delle trasformazioni in atto che sono state ricordate oggi: a partire da quella tecnologica fino a quella geopolitica – ha sottolineato Francesco De Santis, Vicepresidente per la Ricerca e lo Sviluppo di Confindustria -. Siamo in un momento critico: possiamo e dobbiamo definire una nuova strategia europea in grado di guardare al medio temine ma anche di potersi poi riorientare rapidamente, con interventi che guardino a tutti i diversi aspetti e che sia condivisa con gli stati membri e con le imprese  Per raggiungere gli obiettivi di crescita, rafforzamento della capacità tecnologica, indipendenza produttiva, sicurezza è necessario infatti assicurare un ambiente che favorisca l’attività di R&S ma anche la sua valorizzazione industriale (collaborazione sistema pubblico e privato, IP, possibilità di utilizzo secondario dei dati per ricerca, domanda di innovazione pubblica, prima industrializzazione …). Una strategia che deve essere costruita insieme, dal pubblico e dal privato e nella quale le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo fondamentale».

«Una R&S innovativa – riprende Cattani – che contribuisce ad aumentare l’aspettativa e la qualità di vita, ad apportare significativi miglioramenti organizzativi che rendono più semplici i percorsi di cura per i pazienti e più sostenibile la spesa complessiva di welfare, rispondendo alla trasformazione demografica e facilitando la prossimità e la domiciliazione delle cure. Risultati che rendono più forte l’economia italiana. La ricerca Made in Italy ha tante sfaccettature e specializzazioni: nei medicinali, nei vaccini, negli emoderivati, nei farmaci orfani, nei principi attivi. E ha una posizione rilevante nelle terapie avanzate, sviluppate anche in collaborazione tra imprese e altri soggetti – in una logica di open innovation – dell’ecosistema nazionale della R&S. Un ruolo di primo piano lo rivestono gli studi clinici: sono oltre 700 i milioni di euro investiti dalle imprese farmaceutiche ogni anno. Con vantaggi per i cittadini, che accedono a terapie innovative, per i professionisti della salute, che hanno l’opportunità di una crescita professionale, e per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che ha anche vantaggi economici. Secondo un’indagine di ALTEMS (Università Cattolica), l’“effetto leva” per ogni euro investito dalle aziende genera un beneficio complessivo per il SSN pari a 3 euro, in termini sia di spese dirette connesse allo studio sia di spese indirette per la fornitura di farmaci e la gestione dei pazienti, che si traducono in costi evitati».

Un convegno che ha l’obiettivo di “guardare lontano”, come guarda lontano l’industria farmaceutica, in un mondo sempre più veloce, complesso e competitivo che vede gli scenari cambiare alla velocità della luce. La prospettiva è quella di un confronto tra aziende e stakeholder, con tutti gli attori del sistema – dalle Istituzioni ai medici, dai pazienti alle Università – che è concreta applicazione del protocollo firmato con MUR e CRUI nel giugno scorso, per migliorare la capacità di tutto l’ecosistema nella ricerca e innovazione e offrire così nuove possibilità e speranze di cura ai cittadini.

In occasione dell’evento è stato firmato un protocollo con il Consiglio Nazionale delle Ricerche per una collaborazione strategica su progetti in aree comuni di interesse e di modelli innovativi per il trasferimento tecnologico, open innovation, sviluppo clinico di farmaci e formazione specialistica accademica e post-accademica.

Le sfide all’orizzonte in un quadro geoeconomico confuso e instabile

Nello scenario geoeconomico di oggi il quadro globale appare molto complesso e incerto. Guerra dei dazi, instabilità delle filiere produttive e aumento dei costi di approvvigionamento (+30%), sono argomenti all’ordine del giorno. A ciò si aggiunge il declino della competitività europea e la dipendenza per i principi attivi da Cina e India (75%), così come per l’alluminio (60%).

Scenari che non possono prescindere dalle esigenze sanitarie future. Entro il 2042 infatti la popolazione mondiale crescerà di 1,2 miliardi di persone, con un aumento significativo della popolazione anziana. Aumenterà quindi la prevalenza di malattie croniche e neurodegenerative.

Nuovi attori stanno poi emergendo con forza a livello globale, anche nella R&S. Xi Jinping, leader cinese, ad esempio, ha affermato nel giugno 2024 che l’innovazione hi-tech è campo di battaglia tra potenze. E l’Europa deve rapidamente invertire una tendenza che continua a vederla perdere terreno. Ad esempio, recenti dati internazionali IQVIA mostrano che dal 2009 al 2024 la Cina ha visto un’impressionante crescita del numero di studi clinici avviati dalle aziende con sede nel Paese, che ha raggiunto nel 2024 il 30% avvicinandosi alla quota del 35% degli Stati Uniti mentre l’Europa continua a perdere attrattività, scendendo dal 44% al 21%. E negli ultimi 25 anni il vecchio continente ha perso il 25% di investimenti in ricerca e sviluppo rispetto agli Stati Uniti. Oltre alla Cina avanzano anche altri Paesi come l’India, l’Arabia, la Corea del Sud.

Velocità, attrattività, competenze e sburocratizzazione per la competitività

«Quale sarà l’Europa di domani? – si domanda Cattani -. Le possibilità sono solo due: quella che abbiamo conosciuto finora, lenta, burocratica, disincentivante, penalizzante, che ha bruciato in pochi anni il vantaggio competitivo e che considera la salute come un costo. O quella che, con visione, considera le Life Sciences un investimento e passa dalle parole ai fatti. In molteplici documenti è stata riconosciuta l’importanza strategica dell’industria farmaceutica, individuata anche tra i settori chiave per la sicurezza e lo sviluppo. Ora è il tempo di passare all’azione, costruendo un ecosistema davvero pro-innovation. La velocità e la semplificazione burocratica sono le fondamenta necessarie per attrarre investimenti e offrire innovazione.

Oggi con l’impressionante quantità di investimenti nel mondo e con i passi da gigante del digitale, delle nuove tecnologie e dell’Intelligenza Artificiale (IA) si aprono incredibili possibilità di sviluppo.

L’IA ha fatto registrare una crescita del 400% sull’identificazione di molecole in sviluppo tra il 2020 e il 2023 e un tasso di successo di quelle nella prima fase di sperimentazione clinica tra l’80 e il 90%. E riduce del 40% i tempi di ricerca preclinica. Ecco perché è arrivato il momento di accelerare, rendendo il contesto più competitivo, tutelando la proprietà intellettuale e facilitando l’uso secondario dei dati clinici per enti pubblici e aziende a fini di ricerca, nel rispetto della privacy. Un percorso necessariamente veloce volto a migliorare l’accesso all’innovazione per i cittadini, grazie anche a una formazione costante per sviluppare le competenze, soprattutto digitali, necessarie alle esigenze di oggi. Non possiamo permetterci di perdere un tesoro così prezioso. Siamo al fianco del Governo che si sta adoperando con convinzione sia in Italia sia in Ue per mantenere la nostra Nazione e l’Europa tra le prime della classe», conclude Cattani.

Il sistema italiano dei dati sanitari è davvero “rotto”?

A inizio 2025, The Lancet Regional Health – Europe ha pubblicato un editoriale dal titolo provocatorio: “The Italian Health Data System is Broken”. L’articolo evidenziava alcune debolezze della gestione dei dati sanitari in Italia, tra cui la frammentazione regionale, la scarsa interoperabilità e l’inefficienza del sistema, arrivando a definirlo come “rotto”.

Sebbene alcune delle preoccupazioni sollevate siano valide, come Società Italiana Intelligenza Artificiale in Medicina (SIIAM) riteniamo che questa valutazione sia eccessivamente semplificata e non tenga conto dei numerosi progressi in atto, che dimostrano invece quanto la nostra struttura dei dati sanitari abbia delle solide fondamenta e sia in una fase importante di sviluppo.

Un sistema complesso in evoluzione

L’Italia, con le sue 19 regioni e due province autonome, ha un sistema sanitario decentralizzato che porta a una gestione regionale dei dati sanitari. Questa struttura federale, soprattutto a partire dalla legge costituzionale n.3/2001 (modifica del titolo V), ha portato a difficoltà nell’interoperabilità dei sistemi informativi e disparità nell’adozione di soluzioni digitali. Ma ciò non significa che il sistema sia irrimediabilmente compromesso.

Infatti, il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), il principale strumento di raccolta e condivisione dei dati sanitari, è attualmente attivo per oltre il 97% della popolazione italiana, con il 94% dei medici di base che lo utilizzano regolarmente. Inoltre, sebbene persistano differenze regionali nell’uso, il progetto FSE 2.0, finanziato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), punta a rendere il FSE completamente interoperabile entro il 2026 e a mitigare queste differenze.

Interoperabilità e digitalizzazione: un processo già avviato

D’altra parte, spesso si sottovaluta il livello di centralizzazione già esistente nel sistema italiano, garantito dal Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS), che integra dati su ricoveri ospedalieri, accessi al pronto soccorso, farmaceutica e prestazioni specialistiche. Pur con margini di miglioramento, questa base solida consente già un certo grado di integrazione.

L’Italia ha avviato un percorso di digitalizzazione che mostrerà appieno i suoi frutti entro il 2026

Inoltre, l’Italia ha fatto progressi significativi nell’uso secondario dei dati sanitari per la ricerca. La recente revisione del Codice Privacy mira a  facilitare l’uso di questi dati per finalità scientifiche, rendendo più agevole il percorso dei trial clinici all’interno dei Comitati Etici e semplificando il processo autorizzativo. La lentezza burocratica nell’approvazione di studi multicentrici rimane una criticità, ma richiede interventi normativi più ampi, non solo un miglioramento dell’infrastruttura digitale.

L’Intelligenza Artificiale come motore di innovazione

L’intelligenza artificiale (AI) offre un’opportunità unica per superare molte delle criticità evidenziate. Per esempio, tecniche come il Federated Learning permettono l’analisi dei dati sanitari e lo sviluppo di modelli senza la necessità di trasferire i dati al di fuori della struttura dove sono archiviati, rispettando le autonomie regionali e la privacy dei pazienti. Inoltre, approcci basati sui Large Language Models (LLMs) permettono sempre più agevolmente l’analisi di dati non strutturati.
La rapidissima evoluzione degli strumenti di AI può trasformare in maniera radicale l’uso dei dati sanitari.

L’Italia ha un’infrastruttura digitale in crescita

In ultima analisi, dichiarare che il sistema italiano dei dati sanitari sia “rotto” non solo è impreciso, ma rischia di oscurare i progressi realizzati. L’Italia ha un’infrastruttura digitale in crescita, con un impegno concreto di svariate istituzioni nel migliorare interoperabilità e utilizzo delle tecnologie emergenti come l’AI.

Le sfide restano: servono politiche più incisive per armonizzare le differenze regionali, accelerare l’adozione di standard comuni e coinvolgere maggiormente professionisti e cittadini. Tuttavia, il cammino verso un sistema sanitario digitale più efficiente è già avviato, e definirlo fallimentare è controproducente.

La politica può armonizzare le differenze regionali, accelerare l’adozione di standard comuni e coinvolgere maggiormente le persone

Come SIIAM continueremo a promuovere il dialogo tra istituzioni, professionisti e cittadini per massimizzare il potenziale della trasformazione digitale in sanità, con l’obiettivo di costruire un ecosistema di dati più equo, accessibile e innovativo.

Donazione e trapianto di tessuti, 2024 miglior anno di sempre

Il 2024 è stato un anno di primato anche per la donazione e il trapianto di tessuti, oltre che per gli organi. La conferma arriva dal report annuale del Centro nazionale trapianti: le donazioni di cornee, cute, tessuto muscolo-scheletrico e delle altre tipologie di tessuto umano hanno raggiunto quota 15.487 prelievi, il numero più alto mai realizzato in un anno, con un’ulteriore crescita (+1%) rispetto al record segnato nel 2023. Ancora migliore la performance registrata nell’attività di trapianto: nel 2024 gli interventi effettuati sono stati 25.872, il 3,7% in più rispetto all’anno precedente. 

Nel dettaglio, le donazioni di cornee sono rimaste sostanzialmente stabili (11.105) mentre sono aumentati significativamente i trapianti (8.433, +6,6%). Ancora migliore il risultato dei trapianti di cute, che sono stati 1.967 (+19,8%), con 429 donazioni. Sono state invece 2.691 le donazioni di tessuto muscolo-scheletrico (11 in più rispetto al 2023), e ben 10.569 i trapianti realizzati. In forte crescita anche l’attività relativa alla membrana amniotica, con 491 donazioni (+24,3%) e 4.147 trapianti (+19,1%). 223 sono state invece le donazioni di valvole cardiache, con 208 trapianti, mentre per i segmenti vascolari gli interventi sono stati 388, con 275 prelievi da donatore. Più contenuti i numeri delle isole pancreatiche (64 donazioni e 34 trapianti) e tessuto paratiroideo (21 e 125); infine, inizia a crescere un’attività dagli sviluppi clinici recenti come quella relativa al tessuto adiposo: le donazioni sono passate dalle 15 del 2023 alle 188, mentre è stato realizzato un nuovo trapianto dopo due anni di distanza dall’ultimo, effettuato nel 2022. 

L’Italia può contare su 30 Banche dei tessuti: 15 specializzate in un solo ambito (cinque banche degli occhi, cinque banche del tessuto muscolo-scheletrico, due della cute, due delle isole pancreatiche e una della membrana amniotica) e altre 15 in grado di conservare e processare due o più tipologie. «La Rete trapiantologica italiana è un punto di riferimento internazionale anche in questo settore – dichiara il direttore del CNT Giuseppe Feltrin – anche grazie al fatto di poter contare su un sistema di banche all’avanguardia». 

«Di trapianto di tessuto si parla molto meno che di quello d’organo – continua Feltrin – ma si tratta di interventi spesso salvavita, come nel caso del trapianto di cute nei pazienti con ustioni gravissime, o comunque cambiano in modo decisivo la vita di chi le riceve, basti pensare a chi torna a vedere grazie a una nuova cornea.  

Chi decide di registrare il proprio consenso alla donazione degli organi lo fa automaticamente anche per i tessuti, e in questo caso le condizioni per un prelievo dopo il decesso ricorrono più frequentemente. «Per questo è importante ricordare il valore fondamentale della donazione – conclude il direttore del CNT -. Manca poco alla prossima Giornata nazionale della donazione, che quest’anno ricorre l’11 aprile: è il momento giusto per fare una scelta di civiltà che non ci costa nulla, perché avviene quando non ci siamo più, ma che può valere tantissimo per chi resta». 

Suicidio assistito, accesso agli atti Associazione Luca Coscioni: «Almeno 51 le richieste accertate, ma troppe Regioni restano in silenzio». Al via mobilitazione nazionale

L’Associazione Luca Coscioni ha presentato 21 richieste di accesso in tutte le Regioni italiane per ottenere dati sulle richieste di suicidio assistito giunte alle aziende sanitarie dal 2020 a oggi, ovvero da quando con la sentenza 242\2019 la morte volontaria assistita è legale in Italia a determinate condizioni. 

Da quanto finora ricevuto emergono 51 richieste pervenute fino a oggi in diverse Regioni, con esiti variabili tra approvazioni, dinieghi e procedure in corso. Tuttavia, risulta evidente come troppi enti abbiano scelto di non rispondere o di negare l’accesso ai dati, così come risulta evidente che le tempistiche di risposta delle ASL siano incompatibili con le speranze di vita dei richiedenti.

11 regioni – Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Piemonte, Marche, Abruzzo, Bolzano, Sicilia, Calabria e Campania – hanno risposto alla richiesta, fornendo dati, seppur con livelli di dettaglio differenti. Spiccano le 15 richieste in Veneto, 14 in Lombardia, 7 nelle Marche e 6 in Liguria.

Alcune Regioni hanno fornito informazioni precise sugli esiti: a esempio, in Veneto si registra 1 parere positivo, 2 persone morte nell’attesa della conclusione dell’iter, 8 pareri negativi, 2 rinunce e 2 richieste ancora in corso di valutazione. In altre Regioni, come l’Abruzzo, sono stati condivisi dati dettagliati caso per caso, consentendo un’analisi più approfondita del fenomeno. 

Nonostante la normativa italiana garantisca l’accesso civico generalizzato, 5 Regioni hanno formalmente respinto la richiesta, dichiarando di non detenere le informazioni richieste o rimandando ad altri enti senza fornire riscontri concreti. È il caso di Lazio, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Puglia e Trentino-Alto Adige.

Regioni – Valle d’Aosta, Toscana, Umbria, Molise e Basilicata – infine non hanno fornito alcuna risposta, eludendo di fatto l’obbligo di trasparenza amministrativa.

«I dati parziali ottenuti da diverse Regioni tramite l’accesso agli atti dimostrano che manca trasparenza e uniformità nella gestione delle richieste di verifica delle condizioni per poter procedere con il suicidio medicalmente assistito come previsto dalla sentenza Cappato della Consulta. La tutela dell’autodeterminazione non può essere rimessa all’arbitrio delle singole ATS o all’inerzia politica – hanno dichiarato Filomena Gallo e Marco Cappato, rispettivamente Segretaria nazionale e Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni -. Il numero di persone morte prima del completamento dell’iter di valutazione dimostra come servano procedure e tempi certi per il rispetto della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. Un passo finora compiuto solo dalla Regione Toscana e parzialmente dall’Emilia Romagna. Chiediamo alle Regioni che ancora non lo hanno fatto di fornire i dati richiesti, come previsto dalla legge, e di avviare un percorso chiaro e uniforme che tuteli chi si trova ad affrontare una scelta tanto difficile. Dall’1 al 13 aprile ci sarà una mobilitazione in tutte le Regioni per fare informazione sul tema del fine vita, in particolare sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e per garantire un supporto pratico alle persone che vogliono depositarle». 

AI in sanità: non è solo una questione di algoritmi, ma di fiducia

Quando si parla di intelligenza artificiale (AI) in medicina, a fare davvero la differenza non è quanto ne sappiamo, ma quanta fiducia abbiamo nel sistema sanitario e in chi ci lavora. È quanto suggerisce uno studio pubblicato su Jama Network Open che ha coinvolto circa 2.000 adulti statunitensi per capire se si sentano al sicuro sapendo che cliniche e ospedali usano l’AI: i risultati mostrano che la fiducia — o la mancanza di essa — pesa più della conoscenza tecnica. Secondo i dati raccolti tra giugno e luglio 2023, oltre il 65% dei partecipanti ha dichiarato di non fidarsi dell’AI anche se usata in modo responsabile e il 58% dubita che i sistemi sanitari siano in grado di proteggere le persone da potenziali danni legati all’uso di queste tecnologie. A influenzare davvero la fiducia nell’intelligenza artificiale in ambito sanitario non è tanto quanto ne sappiamo, ma quanto crediamo nel sistema nel suo complesso. Curiosamente, sapere come funziona l’AI o avere un buon livello di alfabetizzazione sanitaria non sembra fare grande differenza.

Per gli autori dello studio, la strada è chiara: serve una comunicazione più efficace, soprattutto ora che l’AI avanza velocemente.

A TrendSanità ne abbiamo parlato con Federico Cabitza, professore di Interazione Uomo-Macchina all’Università degli Studi Milano-Bicocca e IRCCS Ospedale Galeazzi – Sant’Ambrogio.

Quanto ci si fida dell’AI in ambito clinico-sanitario?

«L’elemento centrale è in realtà la fiducia che le persone nutrono nel sistema sanitario, o meglio ancora, nelle organizzazioni (cliniche, ospedali o azienda sanitaria) che adottano questi strumenti. Molto di più – ed è sorprendente, in un certo senso – rispetto ad altri fattori come la familiarità con l’intelligenza artificiale, la conoscenza tecnica o anche il livello di alfabetizzazione informatica generale.

Federico Cabitza

Posso confermare, anche sulla base della mia esperienza come ricercatore sul campo, quanto siano rilevanti le esperienze pregresse di disservizi o discriminazioni che alcune persone hanno vissuto da parte di chi ha adottato sistemi di AI.
Mi riferisco, ad esempio, a situazioni in cui ci si è sentiti esclusi dal percorso di cura o trattati in modo ingiusto. Il punto è che quando entra in gioco un sistema automatizzato, questo può apparire ancora più impersonale e rigido.
Un’organizzazione fatta di persone, per quanto possa sbagliare, lascia comunque spazio alla possibilità di appellarsi, fare un reclamo, magari arrivare a un contenzioso.
Con un sistema “intelligente”, invece, si ha spesso la percezione che la decisione sia definitiva, quasi indiscutibile. E questo può aumentare la frustrazione.

Quindi, per rispondere in modo diretto: se il sistema umano ha già deluso una persona, è comprensibile che quella persona fatichi a fidarsi del suo “prolungamento tecnologico”».

Come superare questo ostacolo?

«Nell’articolo pubblicato su Jama Network Open emerge un dato tutt’altro che scontato, anzi, quasi controintuitivo: né la conoscenza dell’intelligenza artificiale né l’alfabetizzazione sanitaria sembrano influenzare in modo diretto la fiducia dei pazienti. In diverse occasioni ho sostenuto che maggiore è la conoscenza, maggiore è la fiducia. Ma quando si parla di persone in carne e ossa ci si rende conto che non si tratta solo di informazione, ma soprattutto di relazione.

Se un paziente si sente ascoltato e trattato con rispetto, sarà molto più propenso a fidarsi anche di tecnologie complesse come l’intelligenza artificiale

Naturalmente non sto dicendo che la conoscenza non conti, ma ha un ruolo indiretto. Conoscere meglio questi strumenti aiuta a capire come e perché sono prese certe decisioni e riduce quel senso di “opacità” di cui spesso si parla nella letteratura scientifica, la percezione cioè che l’AI sia una scatola nera di cui non si comprendono i meccanismi.

È importante essere in grado di dialogare con chi ci cura, poter chiedere spiegazioni, confrontarsi anche sugli input che arrivano dall’AI e, soprattutto, decidere insieme. Si parla proprio di co-decision making, un processo condiviso nella scelta del percorso terapeutico.

Alla fine, tutto si riconduce a un elemento centrale: la relazione medico-paziente. La fiducia nello strumento passa attraverso la fiducia nella persona che lo utilizza. Il paziente deve sentire che è un essere umano – non una macchina – ad avere il controllo.
E ciò significa che i professionisti sanitari devono essere formati, non solo sul piano tecnico, ma anche su come comunicare tutto questo in modo chiaro e rassicurante alle persone».

I professionisti sanitari sono pronti a gestire questi strumenti?

«Credo sia fondamentale che i medici non solo sappiano come funziona l’AI, ma soprattutto che siano in grado di spiegarla. Devono saper mediare tra ciò che l’algoritmo suggerisce e ciò che il paziente sa o ha vissuto in prima persona. Naturalmente, questo richiede che l’AI sia utilizzata con senso di responsabilità, che non vuol dire solo “usarla bene” dal punto di vista tecnico, ma anche essere consapevoli dei suoi limiti e dei suoi rischi. Spesso mi viene chiesto da parte dei medici con cui collaboro cosa significa usare l’intelligenza artificiale in modo etico o responsabile.

Per me, le due cose coincidono. Più che un’etica dei principi, basata su valori astratti, credo in un approccio pragmatico, l’“etica delle conseguenze”.
Significa farsi domande concrete: quali vantaggi e svantaggi comporta questa tecnologia? Quali sono i costi e i benefici reali? E, soprattutto, chi li sostiene? Perché sì, i costi economici possono anche essere distribuiti su tutta la comunità, ma i costi in termini di ansia, disagio o stress li vive il paziente, che si trova in una condizione di vulnerabilità. Ecco perché i medici devono essere preparati a comunicare tutto questo con chiarezza e sensibilità, anche quando si affidano al supporto dell’AI».

In Italia, quanto è diffusa l’AI nella pratica clinica?

«Dalla mia esperienza, devo dire che siamo ancora lontani. Sono ancora pochissimi gli ospedali, sia pubblici che privati, che utilizzano davvero l’AI all’interno dei processi di cura. E quando parlo di “processi di cura”, intendo proprio l’impiego dell’AI nella diagnosi, nella pianificazione terapeutica, nella gestione dei farmaci, ma anche nella prognosi o, ad esempio, per stabilire chi debba essere inserito in un programma di monitoraggio o follow-up.

In sanità — almeno quando si parla di supporto alle attività cliniche classiche, come diagnosi, terapia, monitoraggio e prevenzione — non si può utilizzare qualunque sistema di AI.
L’intelligenza artificiale, in questi contesti, deve essere certificata come dispositivo medico. Non basta che sia marcata CE come semplice software: deve rispondere ai requisiti imposti dal regolamento europeo sui dispositivi medici, che è molto rigoroso.

In sanità — quando si parla di supporto alle attività cliniche classiche, come diagnosi, terapia, monitoraggio e prevenzione — l’AI deve essere certificata come dispositivo medico

Stiamo parlando di una certificazione che richiede studi clinici, test di validazione, insomma un iter simile a quello dei farmaci. Non basta scaricare un’app, servono strumenti sviluppati da aziende specializzate, che abbiano le risorse e le competenze per affrontare l’intero percorso di sviluppo, addestramento, certificazione e validazione. Si richiede un livello di sicurezza e di efficacia che va ben oltre quello a cui siamo abituati con gli strumenti digitali diffusi nel mondo aziendale. Ed è anche per questo che, oggi, i sistemi effettivamente in uso sono ancora pochi».

C’è anche un problema di disponibilità dei dati?

«Certamente. Questi sistemi hanno bisogno di essere addestrati con dati clinici affidabili e ben strutturati, ma il livello di digitalizzazione degli ospedali italiani, soprattutto per quanto riguarda i processi di cura, è ancora piuttosto basso. Non sono molti, infatti, gli ospedali che dispongono di una cartella clinica informatizzata realmente integrata con tutti gli strumenti, come i sistemi di prescrizione farmacologica, gli esami di laboratorio, le immagini radiologiche, o i cosiddetti PACS (sistemi informativi radiologici): la diffusione della tecnologia digitale in sanità è ancora limitata.

C’è un punto che considero davvero fondamentale: è necessario aggiornare i curricula universitari e quelli delle scuole di specializzazione affinché i medici possano comprendere meglio come utilizzare le nuove tecnologie e, soprattutto, come spiegarle ai propri assistiti. Altrimenti, diventa uno strumento che non sviluppa mai appieno il suo potenziale».

Esiste un problema di equità nei dati su cui l’IA è addestrata?

«La preoccupazione è che un sistema automatizzato, che si basa su dati pregressi, finisca per “ereditare” le stesse distorsioni e ingiustizie già presenti nei dati di partenza.
Quindi, se i dati su cui si addestra contengono bias o pregiudizi, anche l’AI finirà per replicarli. Invece di correggere le disuguaglianze, rischia di rafforzarle.

Perché dietro ogni algoritmo c’è sempre un essere umano. L’AI ha un grande potenziale e diversi studi lo dimostrano. Ogni ricerca però va contestualizzata: è difficile generalizzare i risultati di uno studio condotto, ad esempio, negli Stati Uniti, a realtà sanitarie profondamente diverse, come quelle europee o italiane.

Un punto importante, ad esempio, è che i sistemi di intelligenza artificiale devono essere testati in modo trasparente, verificando come si comportano quando si applicano a gruppi demografici diversi.

Spesso sono addestrati su dati relativi a soggetti caucasici, ma poi sono utilizzati anche in ambienti caratterizzati da una forte diversità etnica. Anche in Italia questo rischio è reale. Parliamo di una quota non trascurabile — fino al 10% della popolazione — che potrebbe non somigliare per nulla ai casi medici utilizzati per addestrare i sistemi di intelligenza artificiale.

L’AI, percepita come imparziale, può invece amplificare le discriminazioni se si basa su dati che contengono bias o pregiudizi

Il paradosso è che spesso l’AI è percepita come uno strumento oggettivo, imparziale, più preciso, in grado di “dire le cose come stanno” senza le incertezze dell’elemento umano. Invece, si rischia di riprodurre, se non aggravare, vere e proprie forme di discriminazione.

La questione non riguarda solo i dati o gli algoritmi. È anche un tema politico e sociale. I gruppi minoritari, le persone più vulnerabili o storicamente escluse, devono aver voce nella definizione delle politiche che regolano l’uso dell’intelligenza artificiale».

Cosa intende per politico?

«Penso ai comitati etici, ai gruppi di valutazione, alle associazioni dei consumatori e dei pazienti. È lì che dobbiamo concentrare l’attenzione, perché serve rafforzare la componente umana.

Se la tecnologia non rafforza la cura, la relazione e l’equità, allora non stiamo innovando: stiamo solo sostituendo

L’intelligenza artificiale, di per sé, non esiste in modo autonomo. È uno strumento che vive e prende forma all’interno di quello che noi tecnici chiamiamo un sistema sociotecnico: un intreccio tra tecnologie, processi organizzativi, norme politiche e dinamiche umane.
E tra tutte queste componenti, quella umana è la più delicata. Per me, adottare l’intelligenza artificiale in modo serio e maturo significa usarla per migliorare le relazioni. La relazione tra medico e paziente, tra colleghi, tra chi cura e chi gestisce.
Sì, detta così può sembrare un’utopia. Ma in realtà è l’obiettivo che dovremmo porci per dare un senso al cambiamento che queste tecnologie inevitabilmente portano con sé. Un cambiamento che costa fatica, risorse e denaro.

O ci poniamo questo obiettivo ambizioso ma possibile o rischiamo di investire solo nella tecnologia. Ma se la tecnologia non rafforza la cura, la relazione e l’equità, allora non stiamo innovando: stiamo solo sostituendo».

Contratto medici e dirigenti sanitari, avviare subito trattative per parte economica 2022-2024

Le trattative per il rinnovo del contratto del comparto sanità sono in stallo, e potrebbero riprendere in maniera più decisa a metà aprile, al termine delle elezioni delle RSU. Nel frattempo, tuttavia, medici e dirigenti sanitari attendono l’apertura del tavolo per il rinnovo del CCNL 2022-2024, quindi già scaduto.

Eppure nelle scorse settimane ANAAO ASSOMED e la Federazione CIMO-FESMED hanno partecipato ad una serie di incontri informali con l’ARAN e la Conferenza delle Regioni al fine di avviare le trattative e chiudere rapidamente la parte economica del contratto della dirigenza, delimitando gli interventi nella parte normativa del CCNL in vigore (che ancora non viene applicato nelle Aziende) alla correzione di alcune incongruenze.

Inoltre, era stato assunto l’impegno di firmare il CCNL 2025-2027 entro la scadenza, considerando che gli aumenti più sostanziosi sono stati stanziati per questo triennio contrattuale.

Terminati gli incontri e concluso un lavoro proficuo svolto da tutte le parti, però, all’ARAN e alle Regioni tutto tace. «C’è davvero la volontà politica di chiudere il contratto dei medici e dei dirigenti sanitari per dare ristoro ad una categoria che sta vivendo gravissimi disagi, oppure dobbiamo continuare ad essere ingabbiati in dinamiche che non ci riguardano?» chiedono Pierino Di Silverio, Segretario ANAAO ASSOMED, e Guido Quici, Presidente CIMO-FESMED.

«Aspettiamo che i nostri interlocutori battano un colpo – concludono Di Silverio e Quici – sperando di poter vedere presto, nelle buste paga dei colleghi, gli aumenti previsti dal Governo».  

Al via il progetto europeo Hi-ROC, che indaga la “firma” dei tumori per prevedere terapie personalizzate. CNAO capofila dello studio

Riuscire a leggere la “firma” di un tumore per sapere, in anticipo, quali pazienti risponderanno positivamente alla radioterapia convenzionale e quali invece, pur affetti dalla stessa neoplasia, andranno incontro a “radio-resistenza”, indirizzando precocemente questi ultimi a trattamenti radioterapici alternativi, come l’adroterapia con ioni carbonio.

È questo, in sintesi, l’obiettivo del progetto di ricerca Hi-ROC (Targeting Hypoxia with heavy ions to gain control of RadiOresistant Cancers) avviato in questi giorni sotto il coordinamento del Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica (CNAO) di Pavia. Lo studio, che vedrà coinvolti anche Istituto Nazionale dei Tumori, Politecnico di Milano, Heidelberg University Hospital Heidelberger Ionenstrahl-Therapiezentrum, Neolys, Luxembourg Institute of Health e Maastricht University, si è aggiudicato un bando promosso dal Partenariato Europeo per la Medicina Personalizzata (EP PerMed) e sarà sostenuto, in Italia, da un finanziamento di quasi 500mila euro messo a disposizione da Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica (FRRB).

Anche la Fondazione Paola Gonzato – Sarcoma ETS sarà coinvolta nel progetto Hi-ROC: fornirà il proprio supporto nello sviluppo di un questionario sulla percezione dei pazienti riguardo l’utilizzo di un biomarcatore nella scelta terapeutica e sarà coinvolta nella stesura del protocollo dello studio clinico.

Ester Orlandi

«La nostra indagine si concentrerà sull’individuazione di un biomarcatore globale di ipossia, ovvero la carenza di ossigeno nelle cellule neoplastiche e nel microambiente tumorale – spiega Ester Orlandi, Responsabile Dipartimento Clinico CNAO, Ricercatore presso l’Università di Pavia e Coordinatore del progetto -. L’ipossia determina resistenza alla radioterapia convenzionale con fotoni ed è, pertanto, causa di fallimento terapeutico; limita, invece, in misura molto minore l’efficacia della radioterapia con particelle pesanti, in particolare gli ioni carbonio. Gli attuali protocolli per la scelta del tipo di radiazione da impiegare (fotoni o ioni carbonio) si basano solo su fattori quali lo stadio del tumore e il tipo istologico e non su caratteristiche biologiche, come l’ipossia. Ciò è dovuto soprattutto alla mancanza di un biomarcatore specifico di ipossia, non invasivo, che sia in grado di selezionare i pazienti alla miglior terapia. L’obiettivo di Hi-ROC è proprio quello di definire tutta una serie di fattori che, insieme, compongano la ‘signature’, cioè la firma multimodale del tumore, in grado di rilevarne l’ipossia a livello di singolo individuo».

«Una parte del progetto – prosegue la ricercatrice Orlandi – analizzerà dati clinici, biologici e radiologici di circa 200 pazienti già trattatati con radioterapia convenzionale, in accordo agli standard esistenti e di cui sono noti i risultati clinici. Verranno analizzati dati provenienti dall’imaging e da liquidi biologici per identificare il set di parametri che concorreranno a definire la firma di ipossia. I pazienti, pertanto, saranno classificati come favorevoli o non favorevoli in base al loro outcome e al valore numerico della firma di ipossia definita. Poi, nello studio pilota HYPERION, la firma multimodale sarà testata in associazione a una firma di ipossia radiologica recentemente individuata e, in base a essa, i pazienti saranno trattati con radioterapia convenzionale o con un trattamento che includa ioni carbonio. Questo studio può rappresentare un primo passo verso una radioterapia personalizzata e di precisione».

«Tra gli obiettivi primari del lavoro, c’è anche quello di sviluppare un prototipo di dispositivo medico in vitro per la quantificazione del biomarcatore di ipossia. Il progetto, inoltre, prevede l’impiego di tecnologie innovative per studiare i meccanismi molecolari dell’ipossia, lo sviluppo di una piattaforma computazionale per testare ioni pesanti su tumori ipossici e l’uso di modelli digital twins per la radioterapia personalizzata. Questo è possibile grazie alla collaborazione con prestigiosi istituti oncologici e di ricerca, italiani ed europei, e al supporto di FRRB che da sempre promuove studi finalizzati a una concreta applicazione della medicina personalizzata», conclude Orlandi.

«Siamo molto fieri di finanziare il progetto Hi-ROC, frutto di una collaborazione internazionale e coordinato dalla professoressa Ester Orlandi del Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica (CNAO), realtà di eccellenza in ambito lombardo – afferma Andrea Donnini, Presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica -. In vista dei prossimi anni, siamo convinti che il progetto porterà a grandissimi risultati nell’area della ricerca oncologica. A livello prettamente economico, investiremo quasi mezzo milione di euro al fine di sostenere i professionisti e gli enti coinvolti».

Per i suoi 40 anni Confindustria DM lancia “Insieme per un Paese in salute”

Confindustria dispositivi medici,la federazione che riunisce le imprese che producono e distribuiscono dispositivi medici in Italia, compie 40 anni e lancia “Insieme per un Paese in salute”, un percorso in 6 tappelungo tutto l’arco dell’anno.

«Il progetto nasce per celebrare e raccontare un settore che genera ricchezza per il Paese e ogni giorno innova, immettendo sul mercato dispositivi per la salute che migliorano la qualità della vita delle persone e forniscono ai medici tecnologie insostituibili per la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione», ha dichiarato il Presidente di Confindustria dispositivi medici, Nicola Barni.

Il settore dei dispositivi medici conta oggi 4.648 imprese, che occupano 130.520 dipendenti e sviluppa un mercato di quasi 19 miliardi tra export e mercato interno. Si tratta di un tessuto produttivo dove le piccole imprese convivono con i grandi gruppi, ma è molto vivo anche il mondo delle startup e piccole e medie imprese innovative. Con oltre 1,5 milioni di tecnologie mediche come pacemaker, Tac, RMN, test di laboratorio, soluzioni oftalmiche, sciroppi, integratori, filler, ecografi, ma anche tutte le innovazioni che stanno trasformando il mondo della salute attraverso una rivoluzione tecnologica senza precedenti: dalla stampa 3D alle nanotecnologie, dalla medicina personalizzata basata su biomarcatori e genomica alla telemedicina, dalla robotica alle terapie digitali fino all’intelligenza artificiale.

L’iniziativa “Insieme per un Paese in salute” pone l’accento sulle eccellenze territoriali, sul legame con i distretti produttivi e sulla collaborazione con le associazioni del sistema Confindustria, evidenziando l’impatto significativo del settore sia a livello regionale che nazionale. Il progetto si articola, infatti, in un roadshow che, durante il 2025, toccherà quattro regioni – Emilia-Romagna, Puglia, Lombardia e Toscana – per poi concludersi con un evento nazionale a Roma. Di particolare rilevanza la tappa internazionale presso il Parlamento europeo a Bruxelles con l’obiettivo di affrontare il tema della competitività delle imprese.