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Prevenzione negata: lo Stato dice no allo screening per milioni di donne

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Estendere lo screening mammografico gratuito anche alle fasce 45-49 e 70-74 anni, attualmente escluse dai programmi standard del Servizio Sanitario Nazionale, è da tempo una priorità segnalata dalle linee guida europee. L’obiettivo è diagnosticare precocemente un maggior numero di neoplasie in queste fasce di età. ​ Al momento, infatti, lo screening è riservato alla fascia 50-69.

Ma, nonostante questo, i fondi per farlo non si trovano. O forse, non si vogliono trovare.

Lo scorso 5 marzo la Commissione Sanità del Senato aveva approvato due emendamenti (11.0.19 – testo 2 – e 11.0.20) quasi identici al Disegno di legge 1241 sulle liste d’attesa, per avviare un programma sperimentale triennale di screening. I firmatari proponevano di destinare 6 milioni l’anno dal 2025 al 2027, per un totale di 18 milioni.

Il 19 marzo però è arrivato lo stop: la Commissione Bilancio ha bocciato la proposta, su parere contrario del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha segnalato la mancanza di risorse nel Fondo FEI, già impegnato altrove.

Silvia Deandrea, presidente della Federazione delle Associazioni degli Screening Oncologici (Faso) e del Gruppo Italiano Screening Mammografico (Gisma) a racconta TrendSanità il suo punto di vista.

Silvia Deandrea

«I fondi sarebbero stati comunque insufficienti per coprire in maniera in maniera adeguata queste fasce di età – ci spiega Deandrea – pertanto l’impatto di questa scelta è minimo, anche se sarebbe stato comunque un primo passo, un segnale. Quello che è importante, invece, è l’assenza di queste fasce nei LEA, una battaglia che stiamo portando avanti come società scientifica, insieme alle associazioni dei pazienti. In questo modo non ci sarebbe bisogno di finanziamenti ad hoc, ma diventerebbero parte del sistema. Non dimentichiamo poi che l’estensione dello screening è raccomandata dal Consiglio dell’Unione Europea, nonché dal piano nazionale di prevenzione.

Inoltre, ci sono ancora zone in Italia, per fortuna poche, dove il diritto non è garantito nemmeno per le donne tra i 50 e i 69.

C’è anche un altro aspetto. Siamo una fase in cui, dal punto di vista demografico, le donne del baby boom stanno uscendo dalla fascia 50-69 ed entrando in quella 50-74. Inoltre, stiamo concludendo le raccomandazioni del panel nazionale delle linee guida italiane, basate su quelle europee, dove già da un paio di anni è presente la raccomandazione proprio sull’estensione dello screening alle fasce 45-49 e 70-74 anni».

Serve un aggiornamento dell’attuale programma?

A chi obietta che l’adesione allo screening è bassa, si risponde spesso che il programma non è cambiato da 50 anni. Servirebbe un sistema di prenotazione più snello, non le lettere cartacee, un accesso facilitato ai referti e alle immagini. Anche condividere digitalmente i dati, rendere disponibili le mammografie nel fascicolo sanitario vorrebbe dire risparmiare e semplificare e ridurre.

«Lo screening attuale è ancora basato su modalità che possono sembrare obsolete, come l’invio della lettera cartacea a casa. Questo sistema, però, non è un retaggio del passato – spiega Deandrea – è l’unica modalità legalmente valida oggi in Italia per convocare le persone allo screening, a meno che non abbiano registrato un domicilio digitale. La lettera è necessaria perché lo screening è un LEA e lo Stato ha l’obbligo di invitare attivamente le persone. Non è una questione di “vecchio” o “giovane”, è una questione normativa e organizzazione. Ciò che sicuramente andrebbe svecchiato è la possibilità di modificare l’appuntamento: alcune regioni si stanno già muovendo con portali interattivi o sistemi digitali per la gestione più snella delle prenotazioni. È su questo fronte che si può e si deve lavorare per semplificare l’esperienza delle persone coinvolte.

Per mancanza di fondi la Commissione Bilancio del Senato ha bloccato anche le soluzioni di telemedicina per MMG e pediatri e il Fondo per la prevenzione delle patologie oculari cronico-degenerative

C’è anche un po’ di confusione su cosa sia la mammografia di screening: si tratta di una lettura “sì/no”, fatta da radiologi esperti, non di un esame clinico personalizzato. Se il test è negativo, non ha senso portare quella mammografia dal ginecologo o in altre sedi, perché non ci sono elementi clinici specifici da approfondire. Inoltre, tutte le immagini precedenti sono conservate all’interno del programma, quindi sono disponibili per confronti futuri – conclude la presidente Faso-Gisma».

Le altre proposte respinte per mancanza di fondi

Non solo screening mammografico. Tra gli emendamenti finiti sotto la falce della Commissione Bilancio del Senato, ci sono anche proposte che puntavano a rafforzare l’assistenza territoriale e la prevenzione, ma che si sono scontrate con la solita motivazione: mancano i soldi.

È il caso, ad esempio, delle soluzioni digitali pensate per alleggerire il lavoro di medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, come sistemi automatizzati per la gestione degli appuntamenti, strumenti di comunicazione con le persone assistite o l’adozione di prestazioni di base in telemedicina, tra cui la televisita. Anche qui, la risposta è stata negativa: la copertura economica prospettata è stata giudicata “non idonea”.

Niente da fare nemmeno per il Fondo per la prevenzione delle patologie oculari cronico-degenerative, che sarebbe dovuto essere istituito presso il Ministero della Salute con una dotazione iniziale di 5 milioni di euro a partire dal 2025. Il fondo FEI, lo stesso utilizzato per altri emendamenti, non presenta le disponibilità necessarie.

Ancora una volta, resta l’amaro di fronte a proposte che puntavano a rafforzare la prevenzione, migliorare i servizi e proteggere le persone più fragili, ma che si sono fermate davanti alla porta chiusa delle risorse disponibili.

Alla fine, chi paga il prezzo più alto sono sempre le persone. Quelle escluse dai programmi e che si rivolgono, se possono, al privato.

di Ivana Barberini

Legge di riordino IRCCS, il punto di vista dei ricercatori

Criteri di valutazione della ricerca, accesso ai fondi, inquadramento del personale. Dei nodi legati alla riforma degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), TrendSanità ha parlato con Maria Gabriella Donà, membro del direttivo dell’Associazione dei Ricercatori in Sanità – Italia (ARSI), e ricercatrice sanitaria presso l’Istituto dermatologico San Gallicano di Roma.

Maria Gabriella Donà

ARSI nasce nel 2017 come associazione culturale dal coordinamento nazionale dei lavoratori precari dei 20 IRCCS pubblici italiani, con l’obiettivo di sostenere la promozione della cultura, della libertà di ricerca scientifica e della circolazione delle idee nell’ambito della Ricerca in Sanità. I soci ARSI sono principalmente ricercatori sanitari e collaboratori di supporto alla ricerca sanitaria degli IRCCS e dei dieci Istituti Zooprofilattici Sperimentali.

Qual è il punto di vista di ARSI sulla riforma degli IRCCS, quali miglioramenti ha portato?

«Un aspetto positivo riguarda la comunicazione delle dotazioni organiche della ricerca alle Regioni competenti, ora ottenuta. Un annoso problema degli IRCCS, associato alla duplice missione, è che la Regione si occupa di gestire e finanziare le dotazioni organiche di assistenza, mentre il settore della ricerca è di competenza del Ministero della Salute.

ARSI è un’associazione culturale che riunisce i precari dei 20 IRCCS pubblici italiani

Tuttavia le risorse restano separate e i ricercatori risultano essere retribuiti dal Ministero e non dalle Regioni, per le quali restano “inesistenti”».

Quali sono gli aspetti più critici?

«Certamente esiste un problema importante legato ai finanziamenti. Negli ultimi 20 anni il numero degli IRCCS è raddoppiato, mentre i fondi di ricerca corrente, circa 150 milioni di euro erogati annualmente dal Ministero della Salute agli Istituti, sono rimasti gli stessi. Questo può creare una competizione svantaggiosa per la qualità della ricerca che dovrebbe essere l’obiettivo primario degli IRCCS pubblici e privati. Un altro aspetto non pienamente soddisfacente riguarda la mobilità dei ricercatori tra diversi ambiti, prevista dalla riforma.

Finanziamenti e mobilità sono tra gli aspetti più critici

Una disposizione che non tiene conto della unicità e specificità legate all’aspetto traslazionale della ricerca degli IRCCS, diverso da quello che caratterizza le Università. Un cambio di ambito è poco realistico, e porta alla dispersione di personale con esperienza spesso pluriennale e qualificata, che sarebbe invece da tutelare».

Come procede il processo di stabilizzazione del personale?

«Il processo di stabilizzazione è stato avviato più o meno velocemente in tutti gli Istituti. Ma il nodo fondamentale è che la stabilizzazione sta avvenendo in posizioni non in linea con le competenze e le mansioni svolte per circa la metà del personale. L’inserimento dei ricercatori con titolo post laurea di Dottorato di Ricerca (o di specializzazione, o addirittura entrambi) nel comparto della sanità e non nella dirigenza crea infatti un ingiustificabile svantaggio rispetto ai colleghi con titolo post laurea di specializzazione dedicati all’assistenza. Un problema enorme, che rende gli IRCCS scarsamente attrattivi per chi volesse impegnarsi nella ricerca pubblica; i ricercatori infatti si trovano confinati in un ruolo penalizzante, sebbene le mansioni siano equiparabili a quelle dirigenziali, e ricevono un trattamento economico inadeguato. Nell’arco di cinque anni, il numero dei lavoratori è sceso del 30%, e questo calo sostanziale è imputabile alle scarse prospettive di crescita professionale.

Chiediamo che il Dottorato di ricerca venga valorizzato negli IRCCS tramite equipollenza alla specializzazione

Inoltre per l’accesso tramite concorso alla dirigenza – non medica -, è richiesto il solo titolo della specializzazione. Chiediamo che il Dottorato di ricerca venga valorizzato negli IRCCS tramite equipollenza alla specializzazione per l’accesso alla dirigenza. Questo tema non è stato considerato nella riforma, e andrebbe risolto il prima possibile per frenare l’abbandono dal settore».

Gli IRCCS sono soggetti a una valutazione della produttività: come viene vista la scelta degli indicatori?

«Quello della valutazione è un tema critico, che la legge di riordino non ha risolto; a oggi infatti accreditamento, riconferma e performance di un IRCCS, oltre che l’assegnazione di fondi e i ricercatori stessi, vengono valutati principalmente tramite indici bibliometrici quantitativi, tra i quali anche l’Impact Factor; un sistema che porta a una interpretazione falsata della qualità della ricerca che dovrebbe essere superato.

La legge di riordino non ha risolto il nodo della valutazione

La riforma fa riferimento all’adozione di criteri e standard di valutazione internazionali, richiamando la Carta Europea dei Ricercatori del 2005, dove già era sancito l’utilizzo di indicatori bibliometrici in associazione a un’ampia gamma di criteri di valutazione. Ma la realtà è diversa. Inoltre, la Commissione Europea ha supportato la creazione dell’accordo per la riforma della valutazione della ricerca (ARRA) dal quale è nata la Coalition for Advancing Research Assessment (CoARA). Tra gli obiettivi, quello di modificare il sistema a favore di una valutazione qualitativa della ricerca.

L’accordo è già stato sottoscritto da oltre 800 organizzazioni a livello globale e da innumerevoli università italiane. ARSI ha sottoscritto l’accordo nel 2024 mentre a oggi solo quattro IRCCS, due dei quali pubblici (Istituto Neurologico Besta di Milano e Policlinico San Matteo di Pavia), risultano firmatari. Permane una difficoltà a recepire la necessità di un cambiamento in questo ambito, certamente non semplice. Auspichiamo che il Ministero della Salute possa sottoscrivere l’accordo e farsi portavoce di questo tema».

Quali sono le proposte di ARSI in questo senso?

«Il progetto di ARSI “Impact-based assessment of the translational research in the Italian research hospitals“, che ha ottenuto un finanziamento dall’Unione Europea tramite iniziativa CoARA, mira a superare le limitazioni della valutazione della ricerca in base a indicatori quantitativi e promuove di affiancare una valutazione qualitativa basata sull’impatto nel mondo reale della ricerca degli IRCCS. Nel progetto pilota proponiamo infatti di valutare l’adattabilità del framework del Translational Science Benefits Model (TSBM), sviluppato dalla Washington University in St. Louis, il quale considera gli aspetti di natura clinica, sociale ed economica dell’impatto della ricerca.

Ad esempio, verrebbero considerati i miglioramenti di processi diagnostici o terapeutici basati sulla ricerca sanitaria negli IRCCS i quali, seppur principale missione di questi Istituti, risultano impossibili da valutare secondo gli indici bibliometrici quantitativi attualmente in uso. Il passaggio è complesso ma è necessario avviare il cambiamento con il coinvolgimento dei ricercatori e dei decisori».

Sanità digitale e dati: cosa cambia con lo spazio europeo e il nuovo ecosistema italiano?

A marzo ha preso ufficialmente il via lo Spazio Europeo dei Dati Sanitari (EHDS), iniziativa chiave per garantire un uso più efficace, sicuro e interoperabile delle informazioni sanitarie in Europa. Nello stesso periodo, in Italia è stato istituito l’Ecosistema dei Dati Sanitari (EDS), un passo fondamentale per migliorare la raccolta, la gestione e l’utilizzo del dato sanitario a livello nazionale. Due iniziative strettamente connesse, che mirano a trasformare la gestione delle informazioni sanitarie rendendole più accessibili, sicure e interoperabili, con un impatto significativo sulla ricerca, sull’assistenza ai pazienti e sull’innovazione in ambito sanitario.

Ma cosa significa tutto questo nella pratica? Con lo Spazio europeo, l’Unione punta a creare un quadro normativo unico per lo scambio e l’uso dei dati sanitari tra gli Stati membri, promuovendo un ecosistema digitale che supporti la medicina personalizzata, la ricerca scientifica e l’efficienza dei servizi sanitari. Così come, a livello nazionale, l’ecosistema italiano rappresenta un passo decisivo per ottimizzare la raccolta e l’utilizzo dei dati, favorendo la digitalizzazione e l’integrazione tra le diverse piattaforme sanitarie italiane.
Tuttavia, queste innovazioni portano con sé anche nuove sfide: dalla protezione della privacy alla governance del dato, fino alla necessità di infrastrutture tecnologiche avanzate.

Ne parliamo con:

  • Fidelia Cascini
    Presidente Comitato Direttivo Comunità di Pratica Spazio Europeo dei Dati Sanitari per uso secondario (EHDS2) della Commissione Europea
  • Pierpaolo Maio
    Avvocato esperto in Life Sciences, Data Governance e Privacy

Conduce:

  • Rossella Iannone
    Direttrice responsabile TrendSanità

Parkinson: l’intelligenza artificiale a supporto di diagnosi e monitoraggio

Monitorare in modo oggettivo e in tempo reale i sintomi motori nei pazienti affetti da malattia di Parkinson: è questo il progetto dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino che si avvale di dispositivi digitali minimamente invasivi e a basso costo, assistiti da algoritmi di Intelligenza artificiale, sviluppati dall’equipe di Gabriella Olmo.


L’utilizzo di tali tecnologie consente una rilevazione e una quantificazione dei sintomi più accurata e continua rispetto alla visita neurologica periodica. L’uso di un normale smartphone posizionato sul paziente è in grado di rilevare e quantificare in modo accurato aspetti importanti della malattia, quali la bradicinesia, alcuni parametri del cammino (ad esempio la velocità e la lunghezza del passo), l’equilibrio, e quindi comprendere in modo oggettivo se il paziente si trova in una condizione di buon controllo dei sintomi con la terapia in corso.
Questo è possibile proprio in virtù dello sviluppo di algoritmi di Intelligenza artificiale che, adeguatamente “addestrata” dal clinico nella fase di sviluppo, risulta in grado di analizzare i segnali provenienti dai sensori presenti negli smartphone e di imparare a distinguere le varie misure di interesse clinico.


In modo analogo, con altri sensori di movimento indossabili e di piccole dimensioni, è stato possibile distinguere i momenti della giornata in cui il paziente, al proprio domicilio, manifesta movimenti involontari, una frequente e invalidante complicanza delle fasi più avanzate di malattia, che richiede un’accurata revisione del trattamento farmacologico.


Il progetto è frutto di una proficua collaborazione scientifica tra un gruppo di professionisti della Neurologia universitaria 2 della Città della Salute e della Scienza di Torino ospedale Molinette (diretta da Leonardo Lopiano), con il coinvolgimento di Carlo Alberto Artusi, Gabriele Imbalzano e Claudia Ledda e di Alberto Romagnolo, Mario Rizzone e Maurizio Zibetti, e un gruppo di ingegneri afferenti al Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino, rappresentato da Gabriella Olmo e da Luigi Borzì. Il gruppo di ricerca sta lavorando sulla valutazione clinica e sulla gestione della malattia di Parkinson attraverso metodiche e algoritmi di Intelligenza Artificiale.


Altri studi in corso sono focalizzati invece sull’analisi della voce per sviluppare algoritmi di Intelligenza artificiale che siano in grado di estrarre elementi rilevanti. In tal modo, dalla registrazione di una lettura standardizzata sarà possibile comprendere lo stato clinico delle persone con Parkinson.
L’utilizzo di algoritmi di Intelligenza artificiale permette pertanto di ottenere e analizzare in modo preciso e automatizzato un numero elevato di segnali provenienti da sensori o da registrazioni vocali, rendendo così l’utilizzo di tale tecnologia fondamentale per sviluppare nuovi sistemi di diagnosi precoce e monitoraggio della malattia.


L’obiettivo finale di questi studi è quello di offrire una migliore gestione della malattia, adattando le terapie alle problematiche specifiche di ciascun paziente, in modo personalizzato e nell’ottica della medicina di precisione. Una personalizzazione che punta a migliorare la qualità di vita non solo dei pazienti, ma anche dei loro caregivers, grazie ad un monitoraggio costante che permette interventi tempestivi e mirati.
L’impiego dell’Intelligenza artificiale in ambito neurologico, quindi, rappresenta una svolta innovativa che apre nuove prospettive nel trattamento delle malattie neurodegenerative, offrendo un supporto prezioso al lavoro dei clinici ed un significativo beneficio per chi vive ogni giorno con la malattia di Parkinson.


«Il campo dell’innovazione in sanità è fondamentale nella Città della Salute e della Scienza – spiega il commissario Thomas Schael -. E lo sarà ancora di più nel futuro Parco della salute, della scienza, della ricerca e dell’innovazione. Questa collaborazione con il Politecnico di Torino permette un grande passo avanti per il personale sanitario e soprattutto per i pazienti».


«Innovazione, ricerca, nuove tecnologie e intelligenza artificiale sono alla base della sanità del futuro – sottolinea Federico Riboldi, Assessore alla Sanità della Regione Piemonte –. Per avere cure e assistenza sempre più all’avanguardia e a misura di paziente, è ormai imprescindibile investire in questi aspetti della medicina e nel caso specifico, l’azienda ospedaliero – universitaria Città della Salute e della Scienza si conferma ancora una volta come eccellenza non solo piemontese, ma anche nazionale ed internazionale».

La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa caratterizzata dalla perdita di cellule neuronali, in particolare delle cellule dopaminergiche (essenziali per la corretta esecuzione del movimento), che porta a sintomi motori (bradicinesia, rigidità muscolare, tremore) ed a vari sintomi non-motori che riguardano varie funzioni corporee (sonno, apparato cardio-vascolare, gastro-enterico, genito-urinario; inoltre, sono frequentemente presenti anche depressione, apatia e deficit cognitivi).


In Italia sono coinvolte almeno 300.000 persone (in Piemonte si calcola dai 15 ai 20 mila) e, una discreta percentuale di persone affette (15-20%) manifesta un esordio precoce, prima dei 50-55 anni. Meno frequentemente la malattia può esordire prima dei 40 anni e, più raramente, prima dei 30 anni.


Da un punto vista epidemiologico la malattia di Parkinson è la malattia neurodegenerativa che ha mostrato negli ultimi anni la maggiore crescita in termini di incidenza e prevalenza e si calcola che nel giro di pochi anni il numero di persone affette possa raddoppiare, soprattutto nei Paesi Occidentali. Pertanto è assolutamente prioritario individuare nuove metodiche per la diagnosi precoce, l’utilizzo di terapie neuroprotettive in grado di rallentare la progressione della malattia e quindi per ridurre la disabilità che le persone affette accumulano durante l’evoluzione della malattia. Lo scopo finale è quello di migliorare la qualità di vita delle persone affette e dei caregivers e ridurre l’impatto socio-assistenziale della malattia.

Nuovo Codice della strada: non solo alcol, l’esame audiometrico potrà migliorare la vita delle persone

Per ottenere o rinnovare la patente, sarà necessario sottoporsi a un esame audiometrico strumentale. A richiederlo è il nuovo Codice della Strada (legge 25 novembre 2024, n. 177), che attende ora i decreti legislativi di attuazione entro 12 mesi dall’entrata in vigore il 14 dicembre scorso (art. 35, comma 4, lettera s).

Il test mira a valutare in modo accurato la capacità uditiva dei patentati e andrà a sostituire la precedente metodologia della “voce sussurrata a 2 metri di distanza”. Si tratta di una procedura non invasiva e indolore, fondamentale per individuare eventuali deficit e pianificare interventi appropriati. L’audiometria tonale misura la soglia uditiva, ovvero il livello minimo di suono percepibile, a diverse frequenze, e si esegue utilizzando un audiometro, un dispositivo che genera suoni di intensità e frequenza variabili. Durante la seduta, il paziente segnala quando sente i suoni, permettendo di tracciare un grafico (l’audiogramma) che rappresenta la capacità uditiva. Oltre a questo, c’è l’audiometria vocale che valuta la capacità di comprendere il parlato: al paziente si chiede di ripetere parole che ascolta a diversi livelli di intensità. Il test in questo modo aiuta a determinare quanto la perdita uditiva influisca sulla comprensione del linguaggio.

«L’esame audiometrico dovrebbe essere un controllo dell’udito da effettuare, soprattutto negli anziani, con periodicità. La sua introduzione per ottenere l’idoneità alla guida, in accordo con il nuovo Codice della strada, è utile a ottenere un monitoraggio e una diagnosi precoce dei problemi uditivi che consentono la pianificazione di interventi adeguati, quali apparecchi acustici o terapie che migliorano la qualità della vita o prevengono l’aggravamento», spiega Stefano Di Girolamo, ordinario di Tor Vergata Università degli Studi di Roma e direttore della Clinica di Otorinolaringoiatria del Fondazione PTV Policlinico Tor Vergata.

«L’udito – continua Di Girolamo – è un senso fondamentale per una guida sicura, poiché permette di percepire segnali acustici importanti e reagire tempestivamente a situazioni di pericolo. In più contribuisce a una maggiore consapevolezza dell’ambiente circostante, permettendo di rilevare rumori di motori, frenate, pneumatici e altri suoni che possono indicare la presenza di veicoli, pedoni o ciclisti nelle vicinanze».

Non va dimenticato che l’udito e le malattie neurodegenerative sono strettamente collegati e la diagnosi precoce dei problemi uditivi può svolgere un ruolo importante nell’individuare o monitorare alcune di queste condizioni. La perdita dell’udito inoltre può portare a un maggiore isolamento sociale che determina la depressione, a sua volta, un fattore che può favorire il declino cognitivo.

«I test audiometrici possono aiutare a rilevare precocemente i problemi uditivi, che possono essere un segnale di allarme per una malattia neurodegenerativa – commenta Di Girolamo -. I test audiometrici da soli non possono diagnosticare una patologia, ma forniscono informazioni preziose che, insieme ad altri test e valutazioni cliniche, aiutano nella diagnosi».

Il SerD della Valle d’Aosta introduce la video game therapy, un nuovo strumento terapeutico basato sui videogiochi

Il Servizio per le Dipendenze Patologiche (SerD) dell’Azienda USL Valle d’Aosta introduce un innovativo strumento terapeutico all’interno della presa in carico psicologica: la Video Game Therapy. Questa metodologia, a marchio registrato, introdotta in Italia nel 2019 da Francesco Bocci, sfrutta il potenziale dei videogiochi come mezzo di esplorazione emotiva, sviluppo delle capacità cognitive e supporto terapeutico. Il SerD valdostano è il primo in Italia a offrire in modo strutturato all’utenza, come attività interna, la VGT con un VGT therapist formato e un altro in formazione.

Gerardo Di Carlo, Direttore del SerD, commenta: «Il gioco, come dimostrato da numerosi studi, è un’attività fondamentale per lo sviluppo e il benessere degli esseri umani, contribuendo all’apprendimento, alla crescita e alla gestione dello stress. Non fanno eccezione i videogiochi, nati con lo sviluppo delle nuove tecnologie digitali: rappresentano una forma ludica multidimensionale estremamente utile per sperimentare le proprie emozioni, contribuire a costruire la propria identità e coltivare nuove relazioni. Al di là della componente di pura evasione e svago, i videogiochi offrono un ambiente virtuale, una palestra coinvolgente per la mente, in cui attuare comportamenti senza conseguenze ‘reali’, con la possibilità di ripetere e correggere gli errori di valutazione, provare emozioni in modo interposto e, più in generale, vivere intere modalità di esistenza per altri versi inaccessibili (coltivando anche l’empatia)».

Il progetto di Video Game Therapy del SerD nasce con l’obiettivo di integrare l’utilizzo dei videogiochi nella pratica psicoterapeutica. Il protocollo di intervento è stato redatto da Fabio Pierini, psicoterapeuta e videogame therapist del SerD, in collaborazione con Marco Lazzeri, videogame therapist, e sotto la supervisione di Di Carlo.

Le sessioni terapeutiche si svolgono in un ambiente controllato, in cui il paziente gioca insieme allo psicoterapeuta utilizzando videogiochi selezionati in base alle tematiche da esplorare, come la cooperazione, l’empatia e la capacità di scelta. Durante il gioco, lo psicologo osserva e analizza il comportamento del paziente, utilizzando le informazioni raccolte sia nel corso della sessione sia durante le successive sedute individuali.

Questo trattamento è rivolto agli utenti del SerD, a seguito di un’attenta valutazione dell’équipe. I vantaggi sono numerosi.

Uno degli aspetti fondamentali della Video Game Therapy è la possibilità di condurre una valutazione psicologica in un contesto ludico. L’ambiente di gioco offre infatti un’opportunità unica per osservare aspetti psicologici ed emotivi in una situazione rilassata e meno formale, permettendo al terapeuta di raccogliere informazioni preziose sul paziente.

Inoltre, il videogioco può rivelarsi uno strumento utile per mantenere il contatto terapeutico. Molti pazienti, infatti, trovano difficile esprimersi in un setting tradizionale, mentre il contesto videoludico facilita la comunicazione e rafforza il legame con il terapeuta, favorendo una maggiore partecipazione al percorso di cura.

Un altro vantaggio significativo di questa metodologia è la capacità di coinvolgere pazienti meno inclini ad accettare supporto e presa in carico. Alcune persone potrebbero inizialmente mostrarsi poco propense ad accettare un trattamento terapeutico, ma l’uso del videogioco può rappresentare un ponte per favorire l’adesione al percorso, trasformando la terapia in un’esperienza più coinvolgente e accettabile.

Endometriosi: più di 1.800.000 donne convivono in Italia con una diagnosi

Il 28 marzo ricorre la giornata mondiale dell’endometriosi, l’occasione per sensibilizzare la popolazione sulla diffusione e sull’impatto di una malattia che in Italia colpisce più di 1.800.000 donne in età riproduttiva, e che è dovuta alla presenza di endometrio, la mucosa che ricopre internamente l’utero, all’esterno dell’utero. Con un notevole impatto sulla qualità della vita, sia per l’aspetto sintomatologico (dolori mestruali, dolore pelvico cronico, dolore durante i rapporti sessuali…), sia per le potenziali ricadute sulla capacità riproduttiva: si stima che tra il 30-40% delle donne che soffrono di endometriosi possa riscontrare problemi di fertilità o subfertilità. Nel 2023 il Parlamento italiano ha approvato una legge per il riconoscimento dell’endometriosi come malattia cronica invalidante.

Incidenza e prevalenza: i dati ISS basato sulle dimissioni ospedaliere

A partire dai risultati ottenuti da un modello di Registro epidemiologico sviluppato in collaborazione con l’IRCCS Burlo Garofolo, che si basa sulle schede di dimissione ospedaliera, l’Istituto superiore di sanità è oggi in grado di fornire stime aggiornate dell’incidenza e prevalenza della malattia.

Negli ultimi 10 anni sono stati registrati più di 113.000 ricoveri incidenti di endometriosi con un tasso di incidenza pari a 0.82 casi per 1000 donne residenti in età fertile (15-50 anni) con un trend temporale in calo tra il 2013 e il 2019. La diminuzione è ancora più marcata nell’anno 2020, presumibilmente per un ridotto accesso ai servizi sanitari dovuto alla pandemia da SARS-CoV-2.

Dal 2021 l’incidenza torna ai livelli del 2019 con in media circa 9.300 nuovi casi l’anno e un tasso stabile nel triennio 2021-2023 pari a 0.76 casi per 1000. Come atteso, l’incidenza di endometriosi tende ad aumentare con l’età e raggiunge il valore massimo nella fascia tra 31 e 35 anni (0,12% a livello nazionale).

Un leggero gradiente Nord-Sud

Il dato per ripartizione geografica mostra un leggero gradiente nord-sud del tasso di incidenza, che è generalmente maggiore nelle regioni settentrionali. Nell’ultimo triennio 2021-2023 il trend dei tassi d’incidenza è stabile con tassi leggermente più alti nella provincia autonoma di Bolzano, in Veneto e Sardegna, con più di una donna in età fertile su mille alla quale viene diagnosticata l’endometriosi.

A livello nazionale sono state stimate più di 1.800.000 donne con endometriosi confermata (con prevalenza pari a 1,4% della popolazione femminile tra 15-50 anni), confermando il rilevante burden di malattia nella popolazione.

Sette anni per una diagnosi, ma c’è più consapevolezza della malattia  

L’endometriosi, in particolare il dolore, può avere un enorme impatto sulla qualità della vita, sul funzionamento fisico, sulle attività di tutti i giorni e sulla vita sociale, sulla salute mentale e sul benessere emotivo. Tuttavia la malattia è sotto-diagnosticata e le statistiche indicano che il tempo medio per una diagnosi corretta è di circa 7 anni, per via della natura poco specifica dei sintomi.

Ma alcuni studi recenti evidenziano un’incidenza crescente di casi diagnosticati, anche grazie a una maggiore consapevolezza della malattia.

Un’ipotesi di rischio ambientale da tenere sotto sorveglianza epidemiologica

Alcuni approfondimenti preliminari effettuati dall’ISS mostrano che il rischio di incidenza di endometriosi potrebbe essere associato alla residenza in aree contaminate da inquinanti persistenti che si bio-accumulano, con potenziale azione di interferenza endocrina, quali i policlorobifenili, le diossine, il piombo e il cadmio. Lo studio si basa su approcci di analisi e mappatura del rischio su base comunale, e suggerisce l’opportunità di attivare sistemi di sorveglianza epidemiologica integrati al monitoraggio ambientale in aree fortemente contaminate.

A Bruxelles la sfida europea per i diritti delle persone con stomia

L’accesso ai presidi, l’assistenza specialistica e la sensibilizzazione sono tre delle principali sfide che le persone con stomia affrontano in Europa. A evidenziarle è la FAIS (Federazione Associazioni Incontinenti e Stomizzati), che ha avviato un percorso di confronto a livello europeo con l’obiettivo di accendere i riflettori su una condizione ancora poco considerata dai decisori politici.

L’accesso ai presidi, l’assistenza specialistica e la sensibilizzazione sono tre delle principali sfide che le persone con stomia affrontano in Europa

«La stomia non è una malattia, ma una condizione da gestire», sottolinea Pier Raffaele Spena, Presidente nazionale di FAIS. Negli anni passati, in Italia, le associazioni hanno ottenuto importanti risultati in termini di diritti, ma dal 2017, con l’approvazione dei nuovi LEA, si è assistito a una paradossale involuzione, soprattutto per quanto riguarda i principi dell’appropriatezza e la libera scelta del presidio. Da qui l’esigenza di guardare oltre i confini nazionali, cercando di comprendere le sfide affrontate anche negli altri Paesi europei.

Un problema ancora poco conosciuto

Pier Raffaele Spena

«Abbiamo scoperto che, a livello europeo, il tema della stomia è totalmente sconosciuto ai decisori: né al Parlamento, né in nessun atto ufficiale si è mai parlato dei diritti delle persone con stomia». Eppure, i numeri sono tutt’altro che trascurabili: si stima che in Europa ci siano oltre 700.000 persone con stomia. Un dato probabilmente sottostimato, dal momento che la raccolta sistematica di informazioni è carente ovunque, compresa l’Italia.

«In Italia diciamo di essere 75.000 da più di vent’anni, il che è impossibile. Non esiste un sistema di rilevamento aggiornato: non ci sono registri, e i dati di mercato non sono attendibili per comprendere la reale presa in carico da parte del Servizio Sanitario Nazionale» – sottolinea Spena. Proprio sulla fornitura dei presidi si evidenziano grandi disparità: mentre in Italia questi dispositivi sono a carico del SSN, in Paesi come Bulgaria, Grecia e Romania le persone con stomia ricevono solo una piccola quantità di presidi e devono pagare il resto di tasca propria.

Il progetto europeo e l’evento di Bruxelles

Per affrontare queste criticità, CittadinanzattivaActive Citizenship Network e FAIS hanno avviato un progetto di respiro europeo con l’obiettivo principale di individuare e delineare strategie efficaci per facilitare l’accesso alle cure sanitarie e migliorare in modo significativo la qualità della vita dei pazienti.

Mariano Votta

«Un primo incontro si è tenuto a Bruxelles nel novembre 2023, coinvolgendo 18 associazioni di 11 Paesi», dichiara Mariano Votta, responsabile delle politiche europee di Cittadinanzattiva «Abbiamo avuto un momento formativo e uno di confronto, per mettere a sistema le esperienze nazionali e definire una tabella di marcia comune».

E si è tornati a Bruxelles, al Parlamento Europeo, per presentare i frutti di questo lavoro: il 26 marzo 2025 sono infatti state presentate una serie di Raccomandazioni Civiche, nate grazie al contributo attivo di analisi, confronto e condivisione delle attività e delle esigenze di associazioni provenienti da diversi Stati membri dell’Unione Europea.

Con l’approvazione dei nuovi LEA, si è assistito a una paradossale involuzione, soprattutto per quanto riguarda i principi dell’appropriatezza e la libera scelta del presidio

L’evento, ospitato dal gruppo di interesse formato da europarlamentari “European Patients’ Rights & Cross-Border Healthcare”, è stato anche l’occasione per lanciare una campagna di comunicazione sui social media dal titolo “(In)visible” e ribadire i principi della Carta dei Diritti degli Stomizzati: «Per la prima volta – evidenzia il Presidente di FAIS – le persone con stomia vengono ritratte con il sacchetto in vista. Il nostro obiettivo è rendere visibile l’invisibile».

La stomia infatti rientra nelle cosiddette “disabilità invisibili”, cioè quelle non immediatamente riconoscibili dall’aspetto esteriore. A differenza delle disabilità fisiche evidenti, le disabilità invisibili non comportano necessariamente segni visibili, e questo rischia di rendere ancor più difficile il loro riconoscimento sociale e istituzionale.

L’evento del 26 marzo a Bruxelles ha rappresentato un momento cruciale per il riconoscimento dei diritti delle persone con stomia a livello europeo. Durante l’incontro, sono state presentate le Raccomandazioni Civiche ai decisori europei, con l’obiettivo di mettere in luce tre priorità fondamentali.

La scelta del dispositivo è fondamentale: ogni individuo ha esigenze specifiche, legate a fattori personali, esperienze pregresse e interventi chirurgici differenti

La prima riguarda l’equità nell’accesso ai presidi. Al momento, non esiste una politica comune a livello europeo. In alcuni Paesi viene garantita la fornitura completa dei dispositivi, mentre in altri le persone sono costrette a sostenere spese ingenti per accedere a presidi essenziali. Pier Raffaele Spena sottolinea ancora che uno dei principi fondamentali nella gestione della stomia è l’appropriatezza del presidio e la libertà di scelta dello stesso da parte della persona insieme ad un infermiere stomaterapista. «Un dispositivo che va bene per una persona non è detto che vada bene per un’altra. Ogni individuo ha esigenze specifiche, legate a fattori personali, esperienze pregresse e interventi chirurgici differenti». Sebbene questo concetto possa sembrare semplice, nella realtà dei fatti prevale spesso un criterio basato esclusivamente sul costo, favorendo le soluzioni più economiche a discapito di quelle più efficaci ma più onerose. È quindi essenziale garantire un accesso equo ai dispositivi, offrendo una vasta gamma di scelte per soddisfare le diverse necessità dei pazienti.

La seconda priorità riguarda l’accesso all’assistenza specialistica. La distribuzione degli ambulatori di stomaterapia è fortemente disomogenea, con intere aree prive di strutture adeguate. «Il turismo sanitario – ricorda Spena – esiste in tutta Europa: chi vive lontano dai centri specializzati deve affrontare viaggi lunghi e costosi per ricevere le cure necessarie». Anche in questo caso, la questione riguarda la distribuzione delle risorse. Ad esempio, in Italia, specialmente in Lombardia, gli ambulatori sono distribuiti in modo capillare sul territorio, mentre in altre regioni europee interi territori sono sprovvisti di strutture dedicate, obbligando i pazienti a lunghi viaggi per gestire una condizione che, nei mesi successivi all’intervento chirurgico, richiede un follow-up costante di almeno 3-6 mesi. Un monitoraggio inadeguato può influire negativamente sulla qualità della vita dei pazienti.

Chi vive lontano dai centri specializzati deve affrontare viaggi lunghi e costosi per ricevere le cure necessarie

Infine, la terza priorità riguarda l’informazione e la sensibilizzazione. Le campagne informative sono praticamente inesistenti a livello istituzionale. «Anche in Italia non esiste alcuna iniziativa promossa dal Ministero della Salute o dalle Regioni: tutto è lasciato all’impegno delle associazioni». Questo evidenzia la necessità di un impegno maggiore da parte delle istituzioni per sensibilizzare l’opinione pubblica e garantire un adeguato supporto informativo sulle tematiche legate alla stomia.

Un primo passo per una battaglia di lungo periodo

Spena ribadisce l’importanza di avviare un percorso di sensibilizzazione e riconoscimento dei diritti delle persone con stomia a livello europeo: «Sappiamo già che molti decisori politici non hanno una conoscenza approfondita di questa realtà, ma il punto di partenza è chiaro: esistiamo e abbiamo il diritto di essere ascoltati».

Secondo Spena, la questione non deve essere vista come una competizione tra categorie di pazienti, ma come un’opportunità per offrire sostegno a chi affronta situazioni più complesse. «Non si tratta di stabilire chi stia meglio o peggio, ma di unire le forze per supportare chi vive condizioni più difficili».

Il valore del lavoro svolto fino ad oggi emerge anche dalla capacità di mettere in comune strumenti e risorse tra le associazioni coinvolte. «La campagna “(In)visible”sarà accessibile a tutti, gratuita e adattabile alle specificità di ogni contesto nazionale. Molte realtà associative, da sole, non avrebbero avuto i mezzi per realizzarla, ed è proprio questa collaborazione che fa la differenza».

C’è ancora molta strada da percorrere, ma un segnale concreto è stato lanciato. «L’obiettivo è portare il tema all’attenzione delle istituzioni e costruire un movimento consapevole, capace di farsi sentire. Non abbiamo la certezza di riuscire subito a catturare l’attenzione dei decisori, ma con Cittadinanzattiva-Active Citizenship Network siamo convinti che sia fondamentale fare il primo passo», conclude Spena.

Carenza di ferro nelle donne, Fondazione Onda ETS: fondamentali screening e prevenzione

Carenza di ferro e anemia: una problematica che colpisce molte donne in età fertile, ma di cui troppo spesso le donne non hanno consapevolezza. È questo il tema di una campagna promossa da Fondazione Onda ETS per accendere i riflettori su questa problematica. In occasione della (H) Open Week sulla Salute della Donna, che si terrà dal 22 al 30 aprile 2025, Fondazione Onda ETS distribuirà materiale informativo presso gli ospedali aderenti del network Bollino Rosa, sensibilizzando le donne sull’importanza di fare screening e prevenzione rispetto a questo tema e di rivolgersi al proprio medico di famiglia per un controllo dei livelli di ferro. La campagna si svolge grazie al contributo incondizionato di CSL Vifor.

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) relativi al 2019, la prevalenza di anemia nelle donne italiane in età riproduttiva (15-49 anni) è pari a circa il 13,6%.

«La carenza di ferro, se non adeguatamente monitorata, può evolvere in anemia e condizionare significativamente la qualità della vita di una donna – dichiara Savina Nodari, cardiologa, Professore Associato, Università di Brescia -. Oltre alla stanchezza persistente, si possono manifestare pallore, palpitazioni, caduta dei capelli e fragilità ungueale. È fondamentale effettuare controlli periodici dei parametri ematici, in particolare i valori di emoglobina, ferritina e saturazione della transferrina. Nel caso in cui il ferro assunto per via orale non fosse sufficiente – circostanza che può verificarsi per motivi di scarsa tolleranza o assorbimento – esistono opzioni terapeutiche alternative, come la somministrazione endovenosa, che possono essere valutate insieme al proprio medico specialista».

«Fondazione Onda ETS è impegnata dalla sua nascita vent’anni fa nel promuovere l’importanza della prevenzione a 360 gradi per le donne – sottolinea Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS -. Da qui l’impegno nel promuovere maggiore consapevolezza su un aspetto, come la carenza di ferro, che anche le donne, generalmente più propense rispetto agli uomini alla cura di sé e della propria salute, tendono spesso a sottovalutare, accettando i sintomi quasi come fossero nella norma, una semplice condizione di stanchezza. È invece fondamentale controllarsi per non avere importanti ricadute sulla propria salute».

Giornata internazionale del farmacista ospedaliero: il lavoro di squadra come chiave dell’innovazione del SSN

Domani, 27 marzo, si celebra la Giornata internazionale del Farmacista Ospedaliero. Di che si tratta? Di un’occasione promossa dall’Associazione Europea dei Farmacisti Ospedalieri-EAHP, a cui aderisce con slancio anche SIFO, e che intende celebrare l’importanza di una professione da cui dipende gran parte del corretto funzionamento dei sistemi sanitari di tutto il mondo.

Il titolo scelto per l’occasione – Teamwork in every prescription – sottolinea uno dei valori fondanti della stessa professione: il lavoro di squadra, assetto essenziale per una sanità non più intesa a compartimenti stagni. «Il farmacista ospedaliero e dei servizi sanitari è oggi uno dei maggiori protagonisti di una sanità universale, efficace, attenta alla persona-paziente e capace di interpretare al meglio le necessità di innovazione e sostenibilità – è il commento di Ugo Trama, Vice Presidente SIFO -. Dar vita alla Giornata del farmacista ospedaliero per SIFO significa primariamente riflettere sugli stessi valori che fondano il nostro operato quotidiano, e – a partire da questa riflessione – essere in grado di contribuire a quella innovazione di sistema di cui tutti abbiamo bisogno».

Alcuni dei messaggi chiave che SIFO intende acquisire da EAHP in questa giornata e rilanciare sul territorio italiano le autorità nazionali e tutte le parti interessate devono comprendere l’importanza di avere farmacie ospedaliere ben finanziate e ben preparate per garantire migliori risultati per i pazienti in ambito ospedaliero. «Sono messaggi – conclude Trama- che noi come SIFO già viviamo ed interpretiamo nella nostra quotidianità e che stiamo anche ponendo al centro del Documento programmatico del nuovo Consiglio Direttivo 2024-2028».

Ma quali sono oggi i “numeri” di questa professione? In tutta Europa i farmacisti ospedalieri sono circa 25mila, con un’incidenza della popolazione professionale giovanile sempre maggiore, visto che la professione sta risultando sempre più attrattiva. In Italia SIFO, la principale società scientifica della professione, conta ad oggi quasi 3100 iscritti, una delle massime cifre raggiunte in termini di associati dalla data della sua fondazione (avvenuta nel 1952).