Prevenzione oncologica in carcere: «Così portiamo salute alle donne detenute e madri»

Negli ICAM e nelle carceri milanesi la prevenzione oncologica arriva anche dove la libertà è sospesa. Lorenzo Grimaldi (LILT Milano) racconta a TrendSanità il lavoro con detenute spesso giovani e straniere. E la prossima sfida sarà portare la prevenzione anche agli uomini detenuti

Negli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (ICAM), le donne detenute convivono con i loro figli, spesso in età prescolare, in un contesto che cerca di bilanciare la funzione detentiva con quella di cura. Nonostante gli sforzi per rendere questi luoghi più accoglienti e “a misura di bambino”, restano ambienti in cui le donne sono private della libertà. Anche in questa realtà complessa, il diritto alla salute e alla prevenzione non può essere trascurato.

Ne abbiamo parlato con Lorenzo Grimaldi, Coordinatore dei progetti di prevenzione primaria per fragilità sociali ed economiche di LILT Milano che, in occasione della seconda edizione del Festival della Prevenzione, ha posto l’attenzione su un tema ancora poco esplorato: la prevenzione oncologica per le donne detenute, e in prospettiva, per l’intera popolazione carceraria.

Lorenzo Grimaldi

Quali sono le azioni di prevenzione che la LILT sta realizzando nelle carceri milanesi?

«La nostra esperienza nelle carceri è iniziata nel 2022 con l’Istituto a Custodia Attenuata per Madri, attraverso attività inizialmente sporadiche. È un nuovo target per le nostre attività di prevenzione primaria. Abbiamo potuto agire grazie a un’educatrice che lavora dentro ICAM. Nel 2023 abbiamo realizzato il primo progetto strutturato nel carcere di Bollate, dove siamo riusciti a portare il “pacchetto completo” di prevenzione: sensibilizzazione per le detenute, formazione per gli operatori penitenziari e visite gratuite con il nostro ambulatorio mobile, effettuando visite senologiche con mammografie e visite ginecologiche con Pap test. Recentemente abbiamo coinvolto anche la Casa Circondariale di San Vittore, che presenta complessità differenti, sia logistiche, sia per tipologia di popolazione detenuta».

In dettaglio, come si svolgono gli screening nell’ICAM?

«Nell’ICAM abbiamo realizzato una mezza giornata di visite, effettuando nell’ambulatorio interno visite ginecologiche e senologiche con ecografie mammarie. Quest’ultima scelta è stata dettata dall’impossibilità di portare il nostro ambulatorio mobile all’interno della struttura e dal fatto che molte detenute sono giovani, sotto i 40 anni, per le quali l’ecografia è più indicata della mammografia. La stessa metodologia è stata adottata anche a San Vittore. La differenza principale tra le strutture sta nella fase di sensibilizzazione. L’ICAM è una struttura più aperta, con molte educatrici sia per i bambini che per supportare il ruolo di madri. In questo contesto, abbiamo potuto approfondire meglio la parte di prevenzione dei tumori femminili. Per molte detenute, che hanno cittadinanza straniera, era la prima volta che affrontavano il tema o che facevano una visita senologica al di fuori delle visite ginecologiche legate al parto».

Per molte detenute straniere è stata la prima occasione per accedere a una vera prevenzione senologica

Avete affrontato problemi di comunicazione legati alla multiculturalità?

«Questo è il nostro “pane quotidiano”. Il mio settore, all’interno della LILT, è dedicato proprio alle comunità straniere; quindi, siamo abituati a superare barriere culturali che vanno oltre il semplice invito a fare una visita. L’équipe che ha operato in carcere è la stessa che normalmente lavora con le comunità straniere sul territorio. Tuttavia, dal punto di vista linguistico, abbiamo avuto qualche difficoltà. Fortunatamente, per le detenute latinoamericane ho potuto fare io stesso da traduttore, parlando spagnolo. In altri casi, la nostra psicologa di origine peruviana ha condotto direttamente le sessioni di sensibilizzazione in lingua. Cerchiamo sempre di avere un’équipe essa stessa multiculturale, perché nella nostra visione le operatrici con background migratorio rappresentano esempi di empowerment per le detenute stesse».

Quali sono i numeri degli screening realizzati?

«I numeri variano molto tra le diverse strutture. A San Vittore, attualmente, ci sono circa 80-100 donne detenute, un dato comunque variabile. L’ICAM invece può ospitare al massimo dieci donne con almeno un bambino ciascuna. Noi quest’anno abbiamo visitato circa 160 donne a San Vittore e nell’ICAM e, fortunatamente, non abbiamo rilevato nessuna positività in nessuna delle strutture. I momenti di sensibilizzazione sono stati realizzati a dicembre a ICAM e a febbraio a San Vittore. Gli interventi hanno una durata di due ore. Le visite invece sono state realizzate tutte a marzo in concomitanza con il Festival della Prevenzione in occasione della Settimana della Prevenzione Oncologica (SNPO), con interventi di circa sei ore a giornata.  Abbiamo realizzato 12 momenti di sensibilizzazione sui temi della prevenzione, salute, alimentazione e malattie sessualmente trasmissibili (in collaborazione con LILA) e 370 prestazioni di diagnosi precoce (visite ginecologiche, pap-test, visita senologica ed ecografie ginecologiche).

Screening e sensibilizzazione hanno coinvolto oltre 160 donne detenute tra ICAM e San Vittore, con 370 prestazioni erogate. A Bollate, il progetto ha incluso anche il personale penitenziario

Di 67 donne detenute visitate (di cui 29 italiane) 13 erano di età tra 16 e 25 anni; 28 di età tra 26 e 39 anni; 24 di età tra 40 e 59 anni e due di età tra 60 e 74 anni. Gli screening sono stati svolti nell’ultima settimana di marzo, durante la Settimana Nazionale della Prevenzione Oncologica. A Bollate, l’anno precedente, siamo riusciti a effettuare screening sia alle donne detenute che ad una percentuale di donne della polizia penitenziaria, con numeri molto più ampi: in quattro momenti di sensibilizzazione sui temi della prevenzione, salute e malattie sessualmente trasmissibili, le prestazioni sono state 904 (mammografie, ecografie mammarie, visite senologiche, visite ginecologiche, pap-test ed ecografie ginecologiche) e 180 donne visitate tra detenute e personale penitenziario».

Come siete riusciti a realizzare il progetto e quali sono le prospettive future?

«Negli ultimi mesi con il progetto di prevenzione nelle carceri abbiamo lavorato anche grazie alla collaborazione con LILA Milano, Associazione specializzata nella lotta all’AIDS. Loro hanno portato il loro know-how per quanto riguarda le malattie sessualmente trasmissibili, un tema molto rilevante in ambito carcerario.  Il progetto è stato possibile grazie al sostegno di due fondazioni: la Fondazione Nazionale delle Comunicazioni e la Reale Foundation. Il loro finanziamento è stato fondamentale perché queste iniziative sono molto impegnative dal punto di vista organizzativo e richiedono notevoli risorse umane specializzate.

L’obiettivo è rendere la prevenzione in carcere un’attività continuativa, a supporto delle ASST nelle strutture più complesse

Per il futuro, vogliamo rendere il progetto “Prevenzione nelle carceri” sistematico e non sporadico. Ci arrivano sempre più richieste, soprattutto per supportare le ASST in strutture così complesse. La grande sfida sarà estendere gli screening anche agli uomini detenuti, che ci è stato richiesto sia dalle Direzioni carcerarie sia dagli operatori sanitari. In questo caso, i numeri sono almeno dieci volte maggiori rispetto agli screening per le donne, e la popolazione carceraria maschile ha un’età media sempre più alta, rientrando quindi maggiormente nel target della prevenzione oncologica. Ciò significa che il lavoro richiederà più tempo, più investimenti e una pianificazione a lungo termine. Il nostro obiettivo è anche espandere il progetto ad altre carceri lombarde. Finora abbiamo coperto tutte le carceri del territorio che hanno sezioni femminili».

Quali sono le particolari sfide della prevenzione oncologica maschile in carcere?

«La prevenzione maschile rappresenta un grandissimo ostacolo, perché già al di fuori del contesto carcerario non è tra le più praticate. Il contesto detentivo rende tutto ancora più difficile per molteplici ragioni. Sarebbe una sfida enorme, ma estremamente importante, soprattutto considerando l’innalzamento dell’età media della popolazione carceraria maschile».

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Silvia Pogliaghi
Giornalista scientifica, esperta di ICT in Sanità, socia UNAMSI (Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione)